DUECENTO ANNI FA SI CONCLUDEVA IL TRAVAGLIATO PONTIFICATO DI PIO VII, SECONDO DEI “TEMPI MODERNI”
Oggi (22 ottobre mentre scrivo), il calendario ricorda San Giovanni Paolo II.
Vorrei celebrarlo in modo obliquo, ricordando un Suo predecessore di cui ricorre il bicentenario, e di cui si è avviata la causa di beatificazione. Ovvero Pio VII, al secolo il cesenate Luigi Barnaba Chiaramonti, nato nel 1742 e morto Sommo Pontefice nel 1823. Era di famiglia nobile ma non ricca; il suo ingresso nel mondo ecclesiastico avvenne come monaco benedettino (padre Gregorio), e ben presto si mise in luce per la sua profonda cultura, per nulla chiusa all’ Illuminismo e al razionalismo se non ovviamente, alle sue declinazioni ateistiche. Pio VI (suo concittadino che lo protesse e lanciò) lo nominò vescovo della piccola ma significativa Tivoli (diocesi suburbicaria, nei pressi cioè di Roma); apprezzato anche in tal ruolo, arrivò la nomina vescovile a Imola e infine la porpora cardinalizia.
Ma non fu quel che si direbbe oggi uno “yes man”: i suoi rapporti con le autorità secolari pontificie non furono mai del tutto idilliaci. Infatti, negli Stati petrini vi era una rigida suddivisione fra incarichi pastorali e governo secolare, centrale e periferico. Non era affatto detto che un monsignore vescovo fosse il responsabile politico di un territorio. E durante il ciclone napoleonico, col trattato di Tolentino, la Santa Sede fu costretta a rinunciare alle Legazioni (ovvero proprio al territorio romagnolo in cui il vescovo benedettino svolgeva il suo ministero episcopale). E’ del Natale 1797 un’omelia, che gli fu ritorta contro, specie negli anni più intransigenti della Restaurazione, ma che lo era stata anche quando iniziò a profilarsi la possibilità che ascendesse al Soglio. Questo il suo passaggio più clamoroso: “ La forma di Governo Democratico adottata fra di noi, o dilettissimi Fratelli, no non è in opposizione colle massime fin qui esposte, né ripugna al Vangelo; esige anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s’imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vostra felicità, la gloria e lo splendore della nostra Repubblica”.
Ma Chiaramonti non era assolutamente un modernista ante litteram, forse però fu un pochino “collaborazionista”: non credeva all’alleanza fra trono e altare, e nemmeno alla inconciliablità “a prescindere” della Dottrina con le nuove idee. E fu sempre un provvidenzialista, sicuro che ogni rivolgimento di regime ha un senso nel Disegno divino.
Gli toccò succedere allo sfortunato Papa Braschi (Pio VI) morto ben sei mesi prima a Valence, imprigionato dall’arroganza e bulimia territoriale francese. A lui, eletto nel 1800 dopo un Conclave tenutosi a Venezia sotto la protezione austriaca, toccò la stessa sorte; l’irruzione dei francesi nel Quirinale fortilizio estremo di resistenza pontificia, è resa un po’ troppo con leggerezza (Paolo Stoppa è il papa) nell’ indimenticabile Marchese del Grillo sordiano, ma la frase “non possumus non debemus non volumus” (non vogliamo non dobbiamo non possiamo) fu davvero pronunciata, e ispirò pure Pio IX.
Infatti e purtroppo, la rassegnazione a presenziare all’ autoincoronazione di Napoleone non gli risparmiò qualche anno dopo la sacrilega restrizione di libertà ma gli valse piuttosto la perdita di Avignone, che restò alla Francia con la Restaurazione. Liberato solo nel 1814 da una prigionia non carceraria, ma pur sempre irriverentissima, dovette aspettare la prima abdicazione napoleonica nel 1814 per riprendere con libertà tanto il pontificato quanto la signoria temporale. Comunque fosse né Papa Braschi né Papa Chiaramonti pensarono, neanche lontanamente, all’abdicazione o “dimissioni” di sorta; cosa che invece, sempre in caso di prigionia (all’epoca temuta da parte di Hitler), contemplò Pio XII che avrebbe predisposto una lettera di rinuncia al Soglio da divulgare se la cattura fosse avvenuta.
Tornato al Qurinale e in Vaticano (fulcro l’uno del potere temporale, l’altro del ministero petrino), non poté impedire la Restaurazione più rigidamente teocratica. Ciò non gli vietò di accogliere in spirito puramente cristiano familiari di Napoleone a Roma. Significativamente attuale la reazione popolare alla sua decisione, verso la fine del pontificato, di rendere gratuita e obbligatoria la vaccinazione contro il vaiolo: il suo governo fu costretto ad abrogarne la obbligatorietà.
A 200 anni dalla sua scomparsa rimane ancora attuale il giudizio del suo maggiore biografo, lo storico Philippe Boutry: «Papa delle rivoluzioni, Pio VII attraversò nel pieno del suo svolgersi la storia dell’Impero napoleonico e della Restaurazione di Metternich, affrontò la prova dei cinque anni di prigionia con una disposizione d’animo provvidenzialista che implicava, da parte sua, fermezza sul piano dei principi, fedeltà all’eredità ricevuta e rassegnazione alla volontà divina. In questa luce, nei suoi gesti di fierezza come pure nelle sue esitazioni, egli appare il Papa dei “tempi nuovi”».
Il suo pontificato restò per quasi mezzo secolo ancora, il più lungo della Storia, dopo quello di San Pietro dalla durata però, non storicamente accertabile con esattezza.
A. Martino
Lascia un commento