A MARCINELLE NON MORIRONO SOLO DEGLI ITALIANI … IN BELGIO, L’EUROPA ED IL SISTEMA, MOSTRÒ TUTTA LA SUA DISUMANA NATURA
In questi giorni, in Italia e soprattutto in Abruzzo, si ricordano in modo solenne i nostri 136 connazionali morti nel 1956 a Marcinelle, Belgio, a causa di un incendio divampato nell’omonima miniera.
Molti, commemorando quel disastro, parlano di diritti violati dei lavoratori, altri si spingono nell’accostare, storicamente, la condizione dei nostri migranti con quella delle tante persone che fuggendo dal terzo mondo sono semplicemente alla ricerca di una vita migliore, ma nessuno e quando dico nessuno è nessuno, si permette di mettere in relazione lo sfruttamento di quegli italiani e la loro tragica fine, con i prodromi di questa Europa matrigna la quale, a forza di chiederci cose insensate, ci sta portando verso il baratro più profondo.
A tal riguardo si tenga presente che gli italiani che si trovavano in Vallonia non erano lì per caso, per motivazioni di carattere esclusivamente soggettive, ma a causa di una vera e propria volontà politica che ne tracciava i modi, i luoghi e le finalità.
Si tenga presente, infatti, come sia viva, ancora oggi, nella memoria degli storici la frase pronunciata nel 1949 da Alcide De Gasperi: “Imparate una lingua ed andate all’estero … prime tra tutte l’inglese o il francese”. Ma questi, politicamente, non era solo, a pensarla così era anche Fanfani che, a Venezia, nel giugno dello stesso anno, ebbe a dire: “la partenza massiva all’estero è una valvola di sfogo per il surplus della popolazione italiana”, ma neanche i comunisti furono da meno, così, anticipando la “Balena Bianca”, nel 1948 sul giornale “Rinascita” ebbero a scrivere dell’esigenza degli espatri per risolvere il problema della esuberanza dei lavoratori.
D’altronde, se da una parte l’industria belga, pur scarsamente intaccata dagli effetti distruttivi della seconda guerra mondiale, si ritrovava ugualmente con poca manodopera disponibile, l’Italia, che non aveva nessuna risorsa energetica, di contro, possedeva un esubero mostruoso di operai.
Così, il 23 giugno 1946, fu firmato – da Achille Van Acker, Primo ministro belga e dal suo omologo italiano Alcide De Gasperi, che aveva anche ottenuto l’avvallo sia da Togliatti che da Nenni – il “Protocollo italo-belga”, accordo, quest’ultimo, che prevedeva l’invio di ben 50 000 lavoratori italiani in cambio di carbone.
Nel patto erano previsti un corso di formazione e la garanzia di un alloggio.
Ora, benché gli alloggi si rivelarono strutture fatiscenti – nello specifico si trattava delle baracche che solo pochi anni prima erano state utilizzate come lager dai tedeschi per i prigionieri sovietici – molti italiani continuarono a recarsi in Belgio, invogliati forse anche dai manifesti che comparivano nei vari comuni del belpaese e che informavano i disoccupati della assoluta certezza nell’essere impiegati in questo settore.
Al contrario, però, nulla era specificato riguardo le mansioni effettive che sarebbero state svolte, anche perché, esse, erano a rigor di logica indicibili: si iniziava a più di mille metri sotto terra, tra cavi di 6.000 volt anche a 14 anni d’età, facendo i macchinisti e altre cose “da ragazzi”, d’altronde la legge belga inizialmente prevedeva che i figli dei minatori potessero fare solo i minatori.
Dunque, trattati come bestie, erano costretti a lavorare in cunicoli alti appena 50 centimetri, sottoposti ai pericoli del gas Grisù e della Silicosi.
A questo punto, i nostri connazionali, rendendosi conto di essere stati traditi dalla politica, in migliaia cercarono, dopo pochi mesi, di tornare nella loro terra natia dove erano sì poveri, ma dove almeno potevano respirare aria buona, ma non glielo consentirono.
A legarli, infatti, c’era il contratto.
Esso prevedeva, in maniera tassativa, cinque anni di miniera, con l’obbligo di farne almeno uno: chiunque avesse chiuso il contratto non avendo lavorato almeno 365 giorni sarebbe stato arrestato.
Poiché nel carcere, il Petit-Chateau – oggi diventato, per ironia della sorte, un centro di accoglienza per i profughi – si moriva di fame, furono in molti ad arrendersi e a tornare a lavorare.
Tuttavia i nostri operai, continuando a vivere nel modo austero e frugale al quale erano stati abituati nelle campagne della nostra Italia, riuscirono a risparmiare molto. Si ritrovarono così ad amministrare un piccolo gruzzolo in Franchi, una valuta pregiata dell’epoca.
Molti di essi accarezzavano il sogno di poter un giorno ritornare al paese per poter vivere gli anni della vecchiaia in agiata serenità, ma ciò non era previsto, perché il prezzo della modernità europea era la vita di quegli schiavi.
I nostri migranti, come galline dalle uova d’oro, fecero la fortuna di molti istituti di credito che su queste operazioni di trasferimento costruirono un lucro non indifferente, ma furono anche la manna dello Stato italiano che si ritrovò “iniettato”, a costo zero, nel sistema finanziario nazionale, un enorme mole di valuta pregiata.
Secondo i dati dell’Ufficio Italiano Cambi, le rimesse di tutti i nostri immigrati all’estero si aggiravano intorno ai 34 milioni di Dollari nel 1947. Con l’incremento dell’emigrazione nel ’49 passarono a 92 milioni di Dollari, a 115 milioni di Dollari nel 1952, fino a registrare, negli anni successivi, 336 milioni di Dollari nel 1958 e 921 milioni di Dollari nel 1968.
In totale le “Rimesse Estere” effettuate mediante canali ufficiali dal 1947 al 1968, sono state pari a 8 miliardi e 264 milioni di Dollari che al cambio dell’epoca, in Lire, sarebbero corrisposte a circa £ 5.138 miliardi.
Per rendere l’idea pensate che l’Autostrada del Sole – lunga 755 km, con i suoi 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie e 57 raccordi, vero e proprio vanto ingegneristico dell’Italia degli anni 60 – costò complessivamente al contribuente 272 miliardi di “vecchie” Lire. Ebbene, con le Rimesse Estere dei nostri connazionali, si sarebbero potute costruire ben altre 18 Autostrade del Sole.
In altri termini la vita di quei lavoratori, di quei cittadini, era utile a tutti, tranne a chi la offriva.
Oggi, come allora, il mercato, quest’Europa ipercapitalista e consumista, in nome di un miraggio di benessere, ci chiede di scendere nelle viscere dei call center, piuttosto che nella bolgia dei raider, o nel cocito delle agenzie interinali. Ci impone di formarci attraverso corsi e corsetti costosissimi, ci induce ad essere flessibili e sradicati vendendoci tutto a prestito, anche i sogni. E cosa ancor più grave, ci allontana l’età pensionabile, in modo che, noi, come i nostri padri e nonni, possiamo essere delle galline dalle uova d’oro quando, non anche, delle vacche prima da mungere e poi da sbranare.
Ebbene tutto questo viene da lontano e plasticamente, lo abbiamo scoperto a Marcinelle!
Lorenzo Valloreja
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