OTTANTA ANNI FA (10 LUGLIO 1943) LO SBARCO IN SICILIA, E L’ITALIA FINI’ PERCHE NE NASCESSE UN’ALTRA (O QUALCOSA DI SOMIGLIANTE).PARTE SECONDA: CI FURONO ITALIANI EROI ASSOLUTI, GLI ALLEATI NON FURONO PERCEPITI COME “LIBERATORI”, E I RISULTATI MILITARI PER GLI ALLEATI FURONO MINIMI RISPETTO ALLA SPROPORZIONE DELLE FORZE IN CAMPO.
E infine, ecco la mastodontica forza da sbarco e invasione solcare le acque (alquanto agitate) del Mare Mediterraneo. Arrivano, come più volte, la miriade di navi persiane dinanzi alle coste dell’antica Grecia.
9 luglio 1943, ore 16,30 e ore 19: ricognitori italiani e germanici poi, segnalano l’imponente movimento. Alle 22 il comando italiano dirama l’allarme generale. E allora, prima ancora che gli uragani del fuoco anglosassone, arriva una vergogna per le armi italiane. Contemporaneamente all’allarme generale, con una certa logica perversa, alla piazzaforte di Augusta dotata di ben sei batterie antinavali, venti cannoni costieri, cento cannoni nel perimetro della base e tanto per rincalzo un treno blindato di artiglieria, arriva l’ordine di autodistruzione dell’imponente e temibile armamento.
Per anni vi sarà un polemico scaricabarile fra gli ufficiali della Marina militare e della Milizia (esattamente la Milmart cioè milizia marittima di artiglieria). Perché effettivamente, tutto ciò che ad Augusta era artiglieria, era di competenza di questo particolarissimo corpo di artiglieria marina della Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale; tutto ciò che era portuale, ricadeva sotto la competenza della Regia Marina.
Piccola parentesi per i nostri lettori ormai in gran parte, credo, digiuni di cose militari del Ventennio.
La Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale (detta sinteticamente Milizia sic et simpliciter, o più ideologicamente e genericamente, “le camicie nere”, era una milizia di partito (ovviamente fascista) o se vogliamo privata non mercenaria ma su base volontaria anche se negli anni del vero e proprio Regime ormai professionalizzata come i carabinieri o la Finanza. Si articolava in svariati corpi e specialità da quelle più di polizia a quelle propriamente militari, ed era centro di stimoli culturali nel Paese oltre che di svariate iniziative politico-propagandistiche. E’ spontaneo considerarla la matrice a cui si sarebbero ispirate le naziste SA e poi SS, ma dal punto di vista militare e anche politico, gli analoghi (o copianti) corpi tedeschi, un po’ per la più determinata e, diciamolo, fanatica, attitudine generale nazista, furono molto più incisivi (da tutti punti di vista, compresi quelli tristemente noti se dobbiamo almeno stare alla guerra narrata dai vincitori).
Significativo è quindi, in questo senso, che proprio le mitiche Camicie nere, che avrebbero dovuto essere i più inflessibili alfieri del mussoliniano quanto semplice motto “Vincere”, si rendano protagoniste di un episodio così dubbio, o quanto meno entrino in concorso con una delle solite prodezze della Regia Marina che alla fine, sotto RSI e di lì a poco, costeranno la vita a due ammiragli ignominiosamente bollati come traditori: anche se fu più uno sparare nel mucchio e una vendetta di Mussolini, che la punizione di delitti indubitabilmente provati.
Ma torniamo alla fatidica notte tra il 9 e il 10 luglio. Attorno alle due del mattino, “arrivano”. In una fascia costiera tra Licata, Gela e Pachino. Il primo in assoluto a farne le spese (morirà per le ferite il giorno dopo) è a Gela il brigadiere di Guardia di finanza Arena, che compie il suo dovere da vero eroe pur inconsapevole, sparando col moschetto (il mitico 91, credo) in direzione di rumori sospetti nell’oscurità totale che sono, nientemeno, che la flotta alleata ormai in fase di sbarco. Qualche secondo e a rispondere in siderale sproporzione di mezzi e armi, sarà il cannoneggiamento della flotta americana, e il fuoco leggero dei mezzi da sbarco in direzione del canneto della povera pattuglia della Finanza. Come poi accadrà in Normandia dopo un anno neanche, le vittime dello sbarco lo aspettavano anche da prima della disfatta tunisina, erano ben consapevoli dell’imponenza tecnica che il nemico avrebbe utilizzato, ma come a dimostrare che “occhio non vede, cuore non duole”, non possono credere alla distesa di navi sul mare dinanzi ai loro occhi.
Però a Gela si combatté con entusiasmo ed enorme consapevolezza del sacrificio: probabilmente tutti fecero il loro dovere, e non pochi di più. Bellissimo a riguardo il libro di Andrea Augello “Uccidi gli italiani. Gela 1943 la battaglia dimenticata”.
Il nome di appena qualche eroe italiano, chiedendo scusa alle tante famiglie di chi viene necessariamente omesso. La camicia nera Pietro Mondarini fu uccisa dagli americani mentre, privo di uniforme, li confuse clamorosamente per tedeschi. Dopo aver protestato perché lo bloccavano ed egli doveva prendere servizio in postazione, accortosi dell’incredibile errore, fece per mettere mano alla rivoltella ma questi lo abbatterono prontamente.
Il tenente carrista Navari, il sergente Canella e il carrista Ricci furono letteralmente gli ultimi eroici protagonisti della disperata, folle cavalcata dei modestissimi carri Renault 35 F (preda bellica) dei nostri Gruppi mobili che, scendendo dalle alture e massimamente esposti al fuoco, anche navale e aereo nemico, fecero quanto di umanamente possibile, e di più, per contrastare lo sbarco. Ricci morì saltando fuori dal suo carro colpito e comandato dal sergente Canella, che terminerà la sua folle corsa con la miracolosa sopravvivenza del sottufficiale, il quale centrato da un proiettile anticarro, e uscito dalla tanketta rintronato, sembra che sia stato oggetto di strette di mano da leali militari statunitensi. Ancora più penetrò nella testa di ponte degli USA il tenente Angelo Navari, che bloccato a soli trecento metri dalla spiaggia forse per una avaria al motore, cadde balzandoo dalla torretta con l’arma in pugno in fronte a una moltitudine di ragazzi americani.
Non pochi civili, anche giovanissimi e spesso al fianco dei propri congiunti proscritti, parteciparono alla resistenza contro le forze alleate, a smentita dell’immagine propagandistica di folle di straccioni acclamanti ed entusiasti per le elemosine di cibarie varie, sicuramente reale ma molto episodica. E anche dei civili saranno vittime di esecuzioni illegali e criminali, oltre quelle di militari arresisi tanto italiani quanto tedeschi di cui si macchiarono diversi militari americani, anche processati.
Indubbiamente, specie dopo il 25 luglio, non furono poche le intere unità sbandate e disertrici in un’ atmosfera già quasi da otto settembre. Ma alla caduta di Palermo senza opporre resistenza, fa da contraltare la violentissima battaglia tra italotedeschi al ponte di Primo Sole, o la resistenza nella piana di Catania.
Insomma, gli italiani, anche se fortemente supportati dalle forze germaniche senza particolari problemi politici e di gelosia, riuscirono a non sfaldarsi militarmente, ad offrire prestazioni professionali e disponibilità al sacrificio complessivamente in una media decente per un esercito tanto demoralizzato e indebolito. Nonostante l’immane potenziale di tutte e tre le armi messo in campo dall’invasore, le forze dell’Asse riuscirono a guadagnare la via del continente e ad attraversare lo stretto di Messina ordinatamente: la spallata all’ Italia in pochi mesi era fallita, si può dire alquanto clamorosamente nonostante i nervi del Sistema Italia fossero ormai nel pieno cedimento.
A. Martino
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