NANCY PELOSI A TAIWAN. POTETE LEGGERE E SENTIRE FIUMI DI PAROLE, MA NESSUNO O QUASI SI PERMETTE DI DIRE CHE E’ LA SOLITA PROVOCAZIONE GUERRAFONDAIA A STELLE E STRISCE.
La prospettiva storica è necessaria per comprendere le radici della problematica internazionale rappresentata dall’ isola di Taiwan.
Terra difficilmente riportabile a radici etniche han (cioè puramente cinesi) quanto piuttosto a un ceppo malese, fu più o meno annessa all’impero cinese dopo una breve quanto parziale dominazione degli olandesi subentranti ai portoghesi (che la chiamavano Formosa) nel corso del Seicento, che ebbe la sua roccaforte nella fortezza di Zeelandia. Però appunto, i colonizzatori non si spinsero tanto nell’interno pensando piuttosto ai loro affari e a pararsi le spalle dalle insidie dei feroci e barbarici aborigeni locali.
Nel 1895, in seguito alla prima guerra sino-nipponica, il mondo ebbe notizia di una nuova grande potenza militare e Taiwan divenne la più meridionale delle provincie dell’Impero del Giappone. Tokio promosse un notevole sviluppo economico e sociale, e livelli sanitari mai visti prima. Ovviamente, tra il 1930 e il 1945, molta della produzione industriale era in funzione militare per sostenere l’espansionismo nipponico. Molti taiwanesi, come qualsiasi suddito di Hiro Hito, parteciparono a tutte le campagne militari giapponesi.
Con la disfatta del Giappone nel 1945, esso perse Taiwan come la Corea. Per questa fu tutta un’altra storia, Taiwan invece tornò provincia cinese.
Ma la riunione alla dubbia madrepatria avvenne in un pessimo periodo. Ovvero, debellato il comune nemico giapponese, i comunisti e i nazionalisti del KMT, si videro come costretti a rivolgersi nuovamente contro le armi, nell’ultima guerra civile dei tribolatissimi e confusi primi decenni della Cina repubblicana. Il Kuo Min Tang (KMT) guidato dal simil fascista Chang Kai Chek anche se abbondantemente finanziato e sostenuto dagli americani, partito unico creato dal “padre della patria” Sun Yat Sen (il massone che aveva abbattuto nel 1911 la decadente e decrepita dinastia Manciù), si riteneva in diritto di guidare la Cina per una specie di “destino manifesto”. Ma la “armata di liberazione” di Mao Tse Tong ebbe la meglio, e ai nazionalisti non rimase che rifugiarsi proprio nella ex “terra irredenta” appena ricongiuntasi, anche se con scarso entusiasmo, alla madrepatria. Taiwan è stata sempre Repubblica di Cina. Anche se sull’altra sponda del mare, vi era ormai la Repubblica polare cinese. Ed ecco il punto focale: la Cina “popolare” di Pechino non ha mai rinunciato al concetto che Taiwan sia una specie di provincia ribelle, su cui “prima o poi” dovrà tornare a esercitare una effettiva potestà; il governo di Taipei, invece, anche se continua ad essere Repubblica di Cina, vorrebbe semplicemente essere lasciato in pace e alle sue sorti. Avere rapporti normali con Pechino significa rinunciare a formali rapporti diplomatici con Taiwan (il che praticamente tutto il mondo ha fatto dagli anni Settanta in poi); e ad una eventuale formale dichiarazione di indipendenza, altro che diplomazia e moderazione o tavolo negoziale, Pechino passerebbe a vie di fatto in un giro di lancette dell’orologio.
Nei primi anni, ovviamente, l’isola fu una specie di caserma di cinesi provenienti da località lontanissime, e parlanti un mandarino probabilmente ostico ai taiwanesi. Ma in tutti i successivi, cessato un permanente stato di assedio a causa dell’incombente minaccia continentale, Taiwan ha allentato la tensione militarista ed evoluto persino verso il multipartitismo, con passaggi di potere da e verso il KMT. E soprattutto, ha vissuto specie tra gli anni Cinquanta e Settanta, un incredibile boom industriale specie nell’elettronica prima analogica e poi digitale, in simbiosi col vicino giapponese sua ex madrepatria. Nonostante i sistematici, ossessivi bastoni tra le ruote della storia della “unica Cina” e il suo status da fantasma del mondo diplomatico, Taiwan ha tuttora un grande benessere e determinate sue produzioni nel mondo del microchip e dei microprocessori e semiconduttori sono di cruciale importanza globale.
Non è che la Repubblica popolare cinese faccia di tutto questo un banale refrain di orgoglio, tanto per far vedere all’estero chi si è e per cementare il consenso interno. E se una questione analoga riguardasse l’Italia, chissà da quanti decenni sarebbe stata seppellita in nome del “dialogo” e della “pace”. Fanno tremendamente sul serio; nei primi giorni della presidenza Trump, una misera telefonata tra Washington e Taipei pure provocò un piccolo putiferio. Arrivano a prendersela addirittura con la Madonna blasfemamente quanto demenzialmente rappresentata come ladra di bambini (mah): evidentemente, per la teorica appartenenza di Nancy Pelosi alla Chiesa cattolica, ormai pienamente postcattolica; ma anche forse, per il riconoscimento di Taiwan tuttora accordato dal Vaticano.
Ed eccoci al punto: ma che cavolo di bisogno aveva la ormai famigerata “speaker del Congresso” che presiedendo lo stesso stracciò un discorso di Donald Trump alle spalle di costui, di provocare la Cina col suo dannato pernottamento a Taipei? La pasionaria ultramondialista e in odore di satanismo (altro che devozione mariana), ovviamente russofoba viscerale, non è nuova a questi “lavoretti” anticinesi: già negli anni Novanta, ruppe le scatole al regime pechinese con un teatrale striscione a Piazza Tien An Men.
La vulgata main stream ci fa sapere che Biden e il suo segretario di stato erano contrari alla puntatina a Taipei della vecchia sfegatata; mi pare quindi un gioco delle parti, essendo improbabile che costei si sia tanto incaponita, a costo di provocare anche più delle colossali “manovre militari” cinesi di questi giorni, e l’inizio del blocco portuale di Taiwan. Siamo dinanzi al solito “vizietto” americano della provocazione.
E più esattamente, a quello che ha descritto con fredda sottigliezza confuciana il ministro degli esteri cinese: si crea un problema per poi ritorcerlo contro chi reagisce.
Se però gli occidentali puntavano a una presa di distanza di Pechino dalla Russia sull’Ucraina, mi sembra che questa sia ora assai improbabile.
A. Martino
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