EUROVISION SONG CONTEST. OVVERO, L’ ULTIMO BARACCONE SPAPPOLACERVELLI DELL’EUROMANIA
Secondo voi, cari amici e lettori, cosa potrei pensare dell’Eurovision song contest, quando ormai dal 2019, non perdo occasione per criticare (mi nascondo dietro un eufemismo) il Festival di San Remo?
Ci voleva la “operazione speciale” moscovita, perché perfezionassero l’ennesimo strumento di manipolazione e lobotomizzazione delle masse europee (non solo nella UE): eppure, la kermesse la cui prima edizione risale ai lontani anni cinquanta del secolo scorso, non nasce su deprecabili o tortuosi presupposti globalisti e pensierounicisti, in un tempo in cui, democrazia lberale trionfante o no, si pensò a come offrire a masse con vivissime ferite di lutti e divisioni nazionali, uno strumento riconciliatore e distensivo grazie alla nascente televisione. Canta che ti passa? Sì, ma è certo meglio cantare che bombardare e sparare.
L’idea di base fu di un italiano (il drammaturgo e giornalista Sergio Pugliese), che ovviamente si ispirò al giovanissimo Festival di San Remo, nato nel 1950 qualche anno prima della nostra TV pubblica.
La prima edizione si tenne il 24 maggio 1956, presso il teatro Kursaal di Lugano, in Svizzera, con la partecipazione di sette paesi: Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Germania federale, Italia, che portarono 2 canzoni ciascuno. Fu vinta dai padroni di casa con il brano Refrain di Lys Assia.
Per la bellezza di circa tre quarti di secolo, come il molto meno fortunato e meno longevo Giochi senza frontiere, declinò in ambito canoro l’afflato europeistico migliore, o quanto meno, meno inaccettabile per i palati che ora sono definiti “populisti e sovranisti”. Ma gli ascolti non furono mai debordanti.
Confesso di essermi accorto di quello che ormai era, ed è chiamato Eurovision song contest, da uno zapping di circa dieci anni fa che mi fece atterrare su un incredibile (fantastico? terribile?) pianeta ove cantava un uomo barbuto fasciato con un abito da gran sera tipo sirena, truccato come Moira Orfei. L’impatto fu così scioccante che da allora, parlatemi dell’evento, e mi viene sempre in mente l’austriaca/o Conchita Wurst (nome d’arte ammiccante e alquanto esplicito).
Dinanzi a tale kitsch in effetti ineguagliato nonostante tutti gli sforzi del rutilante baraccone teleuropeista, anche i vincitori ucraini (si sapeva, che vinceva l’Ucraina, sennò che ci andavano a fare) fra lo straccionesco e il folcloristico sono sembrati seriosi con la loro nenia (Stefania) dal sapore balcan-zingaresco-rock. Gli ucraini si aggiornino, per “stare in Europa” inizino gli uomini a baciare alla francese gli uomini e le donne a farlo con le donne; invece di quei tabarri o pellicciotti da pecoraro, imitino i fenomeni musicali dei Kalush le camicette vedo-non vedo, o le gonne o i reggicalze e reggiseno di Achille Lauro, Mahmood, Blanco, o dei Maneskin. In attesa che anche dagli eroi del sottosuolo dell’ Azov arrivi qualche bell’outing. Sulla strada giusta, con quel leggiadro cappello rosa-confetto di uno di loro, i Kalush ci sono già. L’ultra tatuato che potrebbe illudersi di battere Fedez, se ne faccia una ragione: la sua è una vittoria di Pirro, ormai la moda accenna il declino, vada a scartavetrarsi dalla testa ai piedi.
Che esagerata, quella giornalista russa che ha addirittura invocato un supermissile su Torino: l’Italia e l’ Occidente sono sepolti già, anche se fanno finta di non saperlo, dal ridicolo.
Nota a margine. Nonostante la tanto sbandierata “fratellanza dei popoli”, Russia e Bielorussia sono state escluse dalla competizione per motivi puramente politici, e i Kalush (anche se per questo avrebbero dovuto essere eliminati) hanno rivolto un appello antirusso: ovviamente, direi.
A. Martino
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