LA FAMIGLIA BIDEN HA TROVATO L’AMERICA IN UCRAINA
Il presidente USA Joe Biden, assieme a un po’ tutto il “cerchio magico” clinton-obamiano, si può senz’altro definire uno dei peggiori nemici di Vladimir Putin.
Ma forse, tanta inimicizia non è dovuta, o non è dovuta soltanto, alla difesa dei famosi “valori occidentali” ecc. Potrebbero (il condizionale è d’obbligo dato che molto probabilmente mai vi sarà un tribunale che si pronuncerà in merito) esservi aspetti ben più prosaici e imbarazzanti. Li sintetizzerò in un nome e cognome e in una ragione sociale: Hunter Biden (figlio di Joe Biden) e Burisma Holdings (la compagnia di stato ucraina che si occupa di gas e petrolio). Sta di fatto però, che per questi due soggetti, Donald Trump si beccò persino il primo impeachment del suo turbolento mandato.
Ma andiamo per ordine: tutta la storia estremamente opaca e piena di aspetti ambigui inizia, guarda caso, nel fatale 2014, in cui l’Ucraina vede rovesciato il proprio legittimo governo, se non proprio filorusso quanto meno equidistante tra Occidente e Cremlino.
Infatti, la suddetta holding pubblica di Kiev conferisce al buon rampollo dell’attuale “commander in chief” una “consulenza” che, almeno per un poveraccio come lo scrivente, da sola rappresenterebbe la soluzione a qualunque problema economico suo e dei suoi “legittimi discendenti”: fino al 2019 Hunter Biden ha percepito dalla società del governo fumo negli occhi di Vladimir Putin ben 50.000 dollari al mese. Hunter Biden sarà pure un buon avvocato ma la sua esperienza nel campo energetico, nel 2014, era praticamente zero. Però, suo padre era vice presidente degli USA che, assieme a Unione europea e Germania in veste di collaboratori e mandatari di area, erano i pupari del nuovo regime fantoccio di Kiev: un requisito più che qualificante. E d’altronde, nel primo governo dell’Ucraina “liberale e occidentale” (anche se un po’ nazista) erano incredibilmente presenti ben due passaporti americani.
L’interruzione della collaborazione (ammesso che l’ufficialmente ex tossicodipendente figlio di Biden qualcosa abbia effettivamente fatto per la Burisma, si sa come vanno le “consulenze) coincide, giorno o mese più o meno, con la decisione di Biden di correre alle primarie democratiche per le elezioni presidenziali americane del 2020.
Comunque, tra il 2014 e il 2016 l’allora vice di Obama si è prodigato, assieme alla cricca clintoniano-obamiana, nel sanzionare la Russia per la riunione alla Crimea e l’appoggio alle repubbliche indipendentiste dell’Ucraina orientale (abbondanti, tra l’altro, di gas sembra non ancora sfruttato). Nel 2016, però, arriva il ciclone Trump e tanti piani di affari ed emergenze geopolitiche ad essi legate sono stravolte; Biden senior dovette accontentarsi di vomitare veleno, come tutti gli altri dem e parte degli stessi repubblicani, su The Donald (basti pensare al famoso Russiagate).
Dicevamo delle dimissioni da Burisma del buon Hunter. Non bastarono a togliere l’importante genitore da imbarazzi elettorali, dato che per questo ci volle, come accennato il primo impeachment a carico di Trump. Infatti il tycoon aveva appreso che un magistrato ucraino stava indagando su tutto il complesso affaristico di Biden jr, in relazione al quale i 50.000 euro mensili da “consulenza” potrebbero essere monetine per comprare il giornale o un gelato, rispetto ai dieci milioni di dollari al mese al nero, che secondo un documentario di giornalisti britannici (A lot of hot air) la Burisma avrebbe (ripeto che uso obbligatoriamente il condizionale) bonificato verso altre società tra cui la Rosemont Seneca fondata, guarda caso, proprio da Hunter Biden nel 2009.
E Trump cercò di imporre a Zelensky che il magistrato, “opportunamente” rimosso dall’indagine potesse continuare il suo lavoro o che qualcun altro lo facesse; pena il blocco delle sovvenzioni militari il cui esito è di ben stretta attualità. Apriti cielo: i dem gridarono all’interesse politico in rapporti internazionali, “come è caduta in basso la Casa Bianca”, “Trump la pagherà” ecc. E l’impeachment da cui Trump uscì indenne, grazie alla disciplina di partito repubblicana che fece mancare i necessari voti per la prosecuzione del procedimento. Insomma, un piccolo spaccato di quanto vi sia “del marcio in Danimarca”, anzi in Ucraina. E quando Sleepy (mica tanto, direi) Joe fu eletto a novembre 2020, Zelensky fu entusiasta dicendosi fiducioso della riconquista del Donbass.
Ma certo, tutte cose che appena trapelano sulla carta stampata e su Rete indipendenti, per niente in televisione quale strumento primario, ossessivo e martellante del vittimismo ucrainista e manicheo 100%. Per non parlare dell’ormai mitologico computer portatile di Hunter Biden, “dimenticato” presso un tecnico informatico negli States, rispetto a cui (ammesso che ancora esista) Antonio Di Pietro riterrebbe tutta Tangentopoli una specie di ragazzata.
D’altronde, come dice l’ineffabile Enrico Letta, non è il momento di discutere di roba del passato, vero?
A. Martino
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