IL NOSTRO 10 FEBBRAIO NON VUOLE ESSERE LA SOLITA GIORNATA DEL PIANTO, MA UN APPUNTAMENTO CON LA SPERNZA DI POTER RIUNIFICARE, UN GIORNO, LE TERRE STRAPPATECI, ALLA MADRE PATRIA

Anche quest’anno, il 10 febbraio, gli italiani dovrebbero commemorare la “Giornata del Ricordo”, la solennità civile istituita dalla Repubblica Italiana per ricordare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata.

Usiamo il condizionale perché, da quando è stata istituita nel lontano 2004, questa giornata è stata sempre vissuta con un certo sottotono rispetto alla sua omologa “Giornata della Memoria”, e questo lo vediamo soprattutto a scuola, luogo che, invece, dovrebbe essere deputato più che mai alla trasmissione della nostra storia.

Di chi è dunque la responsabilità di tanta sciatteria storica?

Beh, senz’altro ciò accade perché una simile ricorrenza paga ancora lo scotto di una certa ideologizzazione.

Infatti non è possibile che – se alla celebrazione del 27 gennaio sono dedicate, in ambito scolastico, la settimana antecedente e successiva, l’evento – la “Giornata del Ricordo” sia usata, dalla maggioranza degli insegnanti, per parlare ancora una volta dell’olocausto ebraico. Evento, quest’ultimo, sicuramente importante e degno di nota, ma che, se è vero l’assunto per il quale i morti sono tutti uguali, non ha il diritto di fagocitare e di accorpare, in un’unica melassa, il ricordo di chi è morto ingiustamente per questioni razziali e quindi esclusivamente per motivazioni ideologiche e chi, invece, è stato eliminato semplicemente perché italiano, cioè per dimostrare, in fase di trattative di pace, che quei territori contesi non erano a maggioranza italiana, come si era sempre sostenuto in precedenza, ma, semmai, a prevalenza slava.

Non a caso la “Giornata del Ricordo” si celebra durante l’anniversario della firma dei “Trattati di Pace di Parigi”, avvenuta il 10 febbraio 1947, e con i quali il nostro Paese ha dovuto cedere:

  • L’Istria e la Dalmazia alla Repubblica Jugoslava;
  • Il Comune di Tenda e parte dei comuni di Briga, Valdieri e Olivetta San Michele, alla Francia, unitamente alla vetta del monte Chaberton, quella della Cima di Marta e le fortificazioni sulla sommità del monte Saccarello. Venivano inoltre inclusi nel territorio francese anche una buona porzione del versante italiano dell’altopiano del Monginevro, il bacino superiore della valle Stretta del monte Thabor, il colle del Moncenisio e la parte occidentale, al di là dello spartiacque, del colle del Piccolo San Bernardo. In terra d’Africa Parigi si appropriava anche del Fezzan;
  • La Tripolitania, la Cirenaica, l’Eritrea e la Somalia Italiana alla Gran Bretagna la quale, poi, le avrebbe riunite:
    • Le prime due colonie al Fezzan costituendo così il Regno di Libia nel 1951;
    • L’Eritrea al Regno d’Etiopia nel 1952;
    • La Somalia Italiana alla Somalia Britannica, dando vita all’Amministrazione Fiduciaria Somala che fu gestita dal nostro Paese, per conto dell’ONU, fino al 1960;
  • Le Isole del Dodecaneso, con Rodi alla Grecia;
  • L’isolotto di Saseno all’Albania;
  • La concessione di Tientsin, in Cina, alla Repubblica omonima.

Quella delle cessioni territoriali alla Repubblica Federale Juguslava ed alla Francia di De Gaulle, fu una vera e propria ferita aperta per il nostro Paese perché, a parte i 50 mila morti infoibati e gli oltre 250 mila esuli, segnò non solo una battuta d’arresto nel Processo d’Unificazione Nazionale, che ricordiamolo, è ancora incompiuto, ma ne decretò addirittura l’involuzione.

Perciò non possiamo accettare le manifestazioni di amicizia tra l’Italia e la Slovenia, piuttosto che con la Repubblica Croata, se esse non sono accompagnate, prima di tutto, da una revisione dei confini nazionali che porti alla rettifica degli stessi quantomeno alla la situazione esistente all’anno 1925, cioè prima dello scoppio delle guerre di espansione fascista.

Se la Germania, con il crollo nel muro di Berlino si è potuta riunificare non si capisce perché, l’Italia, vendendo meno lo Stato Federato della Jugoslavia, non abbia potuto avocare a se quei territori e quelle genti che, dalla Repubblica di Venezia in poi, per questioni di ordine geografico, culturale e linguistico, appartengono inequivocabilmente all’Italia.

Altra cosa poi è la questione della Corsica, così come del Nizzardo, del Canton Ticino e dell’Isola di Malta, che, per le stesse ragioni storiche, linguistiche e geografiche, dovrebbero, anch’esse, far parte dello Stato Italiano.

Per quest’ordine di cose, e per tutti i morti che si sono sacrificati per il risorgimento italiano, questo giornale non può che definirsi “IRREDENTISTA!”.

Noi non vogliamo la guerra ma vorremmo che i popoli, liberamente, possano decidere del loro destino.

A tal riguardo so di per certo che, se nel 2022, si tenesse un libero referendum in Corsica, i favorevoli all’unione con l’Italia prevarrebbero su quelli che vorrebbero Ajaccio ancora legata a Parigi.

E con questo spirito revanscista che l’Ortis vuole celebrare il 10 febbraio, non con pianti o fosche commemorazioni, ma, con la speranza che in futuro tutte le terre italiane tornino alla madre Patria …

VIVA l’Istria e la Dalmazia!

Viva le popolazioni da esse fuggite!

Viva l’Italia libera, Indipendente, Unita e Sovrana!

RITORNEREMO!

Lorenzo Valloreja

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