COL DIABOLIK DEI MANETTI BROS., UNA VENTATA DI ARIA FRESCA NEL DESOLANTE IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO ITALIANO

In una delle tante interviste rilasciate prima dell’uscita di Diabolik, i Manetti Bros. hanno affermato che si ispirano a Steven Spielberg che tanti anni fa dichiarò che gli piaceva fare i film che gli sarebbe piaciuto vedere.

Intento che suonerebbe persino banale e scontato: potrebbe sembrare scontato che si diriga un film che piacerebbe vedere come scrivere un libro che sarebbe piaciuto leggere, o dipingere un quadro che si sarebbe voluto godere solitario sulla parete di una sala museale.

Invece non è così: non solo soprattutto per l’ormai a noi fin troppo noto, e famigerato, politicamente corretto incancrenitosi in Pensiero Unico; ma anche per la generale riverenza, più o meno ipocrita, verso i poteri costituiti e le loro parole d’ordine.

Ben venga quindi, questo secondo Diabolik per il grande schermo (primo fu quello di Mario Bava nell’ormai cinematograficamente antico 1968). E non dimentichiamo le parodie televisive di Johnny Dorelli, oltre al suo “Arriva Dorellik”.

E attenzione alla curiosità un po’ inquietante: Totò Diabolicus non è affatto una parodia, dato che arriva sugli schermi mesi prima, nel febbraio 1962, del primo albo di Diabolik (il cui insuccesso fu al momento, quasi da scoraggiare la sopravvivenza del personaggio). La performance del Principe della risata fu invece ispirata da un reale delitto, sulla cui scena fu trovato un biglietto firmato Diabolico o qualcosa del genere.

Il personaggio delle strisce appare notevolmente influenzato dalla mitologia criminale francese in cinema, televisione e letteratura: Arsenio Lupin ma soprattutto Fantomas con i suoi incredibili camuffamenti, che sul grande schermo giungono a influenzare la saga con Tom Cruise “Mission impossible”.   

Non l’ho ancora visto, e francamente mi puzza un pochino il suo enorme battage pubblicitario, col coinvolgimento di RAI Cinema. E so bene, che negli stessi fumetti, la creatura delle sorelle Giussani degli anni Sessanta e Settanta si è “evoluta” in un personaggio assai meno spietato e violento; che comunque, resta pur sempre un Uomo Contro che ha la sua partner di vita e “lavoro” in una donna stupenda che si ispira alle fattezze di Grace Kelly come quelle di Diabolik al divo hollywoodiano Robert Taylor. Basti pensare che la più seria grana giudiziaria per le sorelle Giussani e la loro casa editrice Astorina fu dovuta a una ingenua distribuzione promozionale dell’albo nelle scuole: apriti cielo, procedimento penale per corruzione della gioventù. Se la cavarono solo grazie a un successivo provvidenziale albo in cui Diabolik si trova sulla copertina a cospetto della ghigliottina: il delitto non paga, il Male resta Male ecc.  

Era inevitabile comunque, che il personaggio e le storie si ammorbidissero per non perire come avvenuto agli estremisti e un po’ morbosi fumetti sulla sua scia Kriminal (efferato delinquente virante verso la criminologia pura), per non parlare di Satanik (sconfinante, come intuibile, nell’ horror e nella psicopatologia).

Mi affido però al giudizio a caldo della visione del nostro Direttore Lorenzo Valloreja, il cui giudizio è nettamente positivo. Ed è paradossalmente confortante che Diabolik tanto cinematografico che sulla Striscia resta un delinquente pur di stratosferico livello; quindi un Antisistema, un non omologato, uno scorretto non tanto per scelta economica di vita, ma per scelta filosofica.  

Diabolik e Tex della Bonelli editore sono ormai i due immarcescibili miti del fumetto italiano, che sono riusciti a coinvolgere, nonostante gli splendori assoluti di tiratura degli anni Sessanta e Settanta, ben tre generazioni (nel caso di Tex, direi piuttosto quattro). Diabolik è però decisamente più moderno, vario e  dinamico, rispetto al western bonelliano sostanzialmente prevedibile e scontato nell’esito: Tex spara ai cattivi e li fa fuori uno a uno, i cattivi sparano a Tex ma chissà perché non lo beccano mai. Cavalli per Tex, la Jaguar per Diabolik; vedovanza e castità istituzionale non si sa bene perché per Tex, faticosissima fedeltà alla pur mozzafiato Eva Kant per l’antieroe in latex nero.  

Spero vivamente che il film che andrò sicuramente a vedere, abbia successo; altrimenti i dieci milioni investiti schiacceranno ogni residua volontà di resistenza e riscossa del cinema italiano di genere, del cui mio amore e pessimismo al tempo stesso, ormai i nostri lettori dovrebbero essere ben al corrente.    

A. Martino

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