TIFO PETECCHIALE: LA PANDEMIA DIMENTICATA CHE FECE UN’ECATOMBE
In questa vigilia della festività dei nostri cari defunti un pensiero va certamente alle vittime della Pandemia ed una riflessione mi sorge spontanea: ma come mai, in altre epoche in cui non vi erano né i presidi medici di cui disponiamo, né i rimedi che poi sono stati scoperti, la popolazione viveva in maniera meno isterica questi periodi di crisi?
Si, perché, cari lettori, una cosa dobbiamo dircela molto chiaramente, la nostra generazione, rispetto ai nostri antenati, sta vivendo l’emergenza Covid con grande isteria.
Prova ne è che, di tutti i malanni che hanno colpito il genere umano, anche più pericolosi e letali di quello odierno, come comprovato dai numeri che tra poco vi esporrò, non tutti hanno lasciato memoria di sé, quasi come se quei milioni di morti avuti nell’arco di un solo anno fossero una cosa naturale … non da accettare con rassegnazione, ma semplicemente perché la morte, per quelle persone, era un elemento imprescindibile come il mangiare, il bere, il dormire.
Così quando nel 1816 iniziarono a comparire dei casi di Tifo Petecchiale e poi nel 1817 ci fu una vera e propria strage su scala quantomeno Europea, le autorità si diedero da fare, la popolazione cercò di reagire in qualche modo, ma ben presto fu evidente che questo “mostro” colpiva indiscriminatamente tutti: uomini e donne, ricchi e poveri, quindi la cosa migliore sembrò semplicemente affidarsi alla fede ed aspettare che il male passasse.
Certo, questa malattia, come tutti gli accidenti, aveva ed ha le proprie cause da ricercarsi:
- Nella scarsa igiene tenuta sia nei luoghi pubblici che dalle singole perone;
- In un evento eccezionale come la piccola era glaciale aggravata dall’anno senza estate, cioè il 1816, quando a seguito dell’eruzione del vulcano Tambora, avvenuta tra il 5 e il 15 aprile del 1815, furono riversate in atmosfera 175 miliardi di metri cubi di ceneri sviluppando un energia pari 33 gigatoni (equivalente a 2,2 milioni di Bombe Atomiche) e ingenerando così un inverno nucleare che durò fino a tutto il 1816, compromettendo dunque i raccolti e innescando una terribile carestia;
Ma detto ciò, alcuni testimoni, autorevoli e competenti, ci hanno tralasciato delle relazioni che sembrano attenuare queste due componenti.
A raccontarcelo è il dottor Biagio Marchesani, medico militare a Capua, il quale sostiene che la malattia di cui stiamo parlando si diffuse 3 anni a dietro, tra i militari, prima che si espandesse ai civili.
I primi contagi, sempre secondo il Marchesani: << si verificarono nelle prigioni ove erano ristretti molti giovani contrari alla leva militare, coscritti che non si erano presentati alla chiamata e disertori. Questi ultimi venivano trasferiti con continuità da un carcere all’altro finché non giungevano al carcere della capitale del Regno o a quelli delle piazze militari ed infine, dopo aver espiata la pena per la loro disobbedienza, venivano destinati ai reggimenti >>.
Il contagio iniziò quindi nelle prigioni militari affollate da persone sporche, malati di scabbia e infestati da insetti e si diffuse poi negli ospedali militari.
In altri termini l’epidemia, come tutte le calamità del XIX secolo, fu favorita dalla guerra.
Questo dato ci è fornito anche da un mio personale studio effettuato sui registri dello Stato Civile della Città di Pescara, all’epoca territorialmente più piccola rispetto all’odierno Capoluogo di Provincia, perché non comprendeva l’allora municipalità di Castellammare Adriatico, ma ugualmente importante perché sede di una notevole fortezza militare a guardia del Regno e, in ultimo, anche luogo spietato di detenzione di prigionieri politici e militari.
Ebbene se analizziamo prima il grafico riguardante il “Saldo tra le nascite ed i decessi” avvenuti tra il 1810 ed il 1820 e poi l’andamento della popolazione negli stessi anni, ci renderemo conto di come a Pescara, città carcere, il Tifo Petecchiale, abbia iniziato a colpire dal 1813, cioè tra anni prima del 1816, come giustamente dichiarato dal Marchesani.
Il contagio, a volte, avveniva in maniera subdola perché la malattia non si presentava nella sua forma tipica, così come accadeva anche per il vaiolo.
Poteva quindi ad esempio manifestarsi solo con la febbre o solo con le petecchie senza febbre.
Altre volte invece il contagio avveniva attraverso l’uso di oggetti contaminati come monete, filo, carta, suppellettili, utensili ed altro e diventava difficile contrastarlo perché si trattava di oggetti di uso comune, ma mai e poi mai, da come testimonia il Marchesani, per lo meno presso i militari, per fame.
I soldati non soffrirono assolutamente la fame anzi erano ben nutriti ed avevano sufficiente razione di pane,di carne e di vino. Questa situazione di benessere era sorvegliata dai comandanti di corpo e dai commissari di guerra.
Negli anni passati vi era stata abbondanza di frumento ed il Re per favorirne la raccolta mitigò il dazio doganale.
Nei magazzini militari non vi fu alcuna penuria di frutta, ne di cereali, né tantomeno di vino, granaglie oli e grassi, anche perché a causa della flotta inglese che bloccava i porti e ne impediva il commercio, il consumo poteva essere solo interno.
<< La malattia serpeggiò tra i soldati prima di diffondersi nel Regno senza dare alcuna manifestazione e, dopo essere rimasta dormiente per tre mesi si risvegliò nuovamente nella primavera del 1816; vi fu un periodo di stasi durante l’estate dello stesso anno ma, nella primavera del 1817, riprese con intensità il suo decorso forse a causa del freddo che faceva pensare di essere in inverno >>.
Una situazione talmente surreale da indurre i letterati dell’epoca, Mary Shelley e John Polidori, a produrre i primi capolavori dell’horror, rispettivamente, “Frankenstein, or The Modern Prometheus” e “Il vampiro”, mentre gli alti livelli di cenere nell’atmosfera resero spettacolari i tramonti di quegli anni, crepuscoli immortalati nei dipinti di William Turner.
Ma in che cosa consisteva questo morbo?
Molto semplicemente possiamo dire che il Tifo Petecchiale è una malattia infettiva che si trasmette, dagli animali all’uomo, attraverso la puntura di alcuni specie di pidocchi e pulci.
L’incubazione di questa malattia avviene generalmente in poco più di una settimana, dopo di che il contagiato avrà febbre alta con la comparsa delle petecchie (eruzioni cutanee tipo morbillo per intenderci) unitamente alle quali vi potrebbero essere delle complicanze neurologiche, vascolari e polmonari.
Infatti Biagio Marchesani nel suo resoconto afferma: << In questo momento le febbri sono più che mai frequenti, e la mortalità assai considerevole … Gli occhi diventavano allora cisposi, la pupilla ristretta, la bocca secca e le mucose aride. Compariva un meteorismo diffuso, tosse intensa e delirio fino alla morte>>.
Decesso che riguardò un numero considerevole di persone, ben oltre i 140 mila italiani attualmente morti a causa Covid (dati del Ministero della Salute).
Ribadendo che il Tifo Petecchiale imperversò per tutta l’Europa – ho personalmente analizzato i dati della mia Regione natale, l’Abruzzo, numeri e grafici che possono essere ricostruiti consultando i vari registri degli atti di Nascita e di Morte, fortunatamente conservati, e consultabili presso i vari Archivi di Stato competenti e comparandoli con i dati della popolazione desumibile da un testo preziosissimo come “il Dizionario Geografico/Ragionato del Regno di Napoli” di Lorenzo Giustiniani, edito agli inizi del 1800 – posso affermare senza alcun dubbio di smentita che quella Pandemia no ha avuto nulla da invidiare in quanto a mortalità e pericolosità né al successivo colera né all’attuale Covid.
Infatti, consultando tutte queste carte e mettendole a sistema come nei grafici che qui di seguito ho allegato, ci si renderà conto di come la mortalità in Abruzzo ha portato ad un calo della popolazione tra il 1816 ed il 1817 da un minimo di un 1/8 nella Città di Ortona, ciò significa una riduzione del 13%, passando per 1/6 a Chieti (16%) e 1/5 a Penne, cioè alla morte certa del 19% dei cittadini, fino all’ecatombe registrata a Montesilvano dove a perire fu il 26% dei residenti, cioè morì 1 persona su 5.
Cifre enormi e confermate in altre parti d’Italia, dalle Marche alla Sicilia, dal Friuli alla Sardegna dove le perdite non andarono mai sotto il 10%.
Oggi invece, ascendendo gli italiani a 60 milioni di individui, le perdite, fatte le dovute proporzioni, si attestano intorno allo 0,25% della popolazione nazionale, ciò nonostante la paura ci ha preso le coscienze e ci ha rapito i cervelli.
Eppure non è che all’epoca, superficialmente, non siano stati attenti nel limitare i contagi come comprovato da un documento conservato presso l’Archivio di Stato Teramo, e consultabile nel registro dei morti del Comune di Giulianova, nel quale, l’allora Commissario Sanitario Fulgenzio De Petris, unitamente al Sindaco Egidio Bucci e all’Arciprete Andrea Castorani sottoscrissero il seguente documento: << Oggi giorno 17 del mese di aprile 1817 essendoci riuniti col sig. dott. Don Fulgenzio de Petris qui arrivato ieri in qualità di Commissario Sanitario, unitamente ai dottori fisici di questo comune, egli dopo un ragionamento fatto con essi (…) si è portato a visitare gli ammalati tanto nel paese che nella campagna, nonché l’ospedale civile, le carceri, le chiese, camposanto e tutte le strade dell’abitato e poi riunitosi col sig. Giudice di pace, sig.ri membri di carità e galantuomini principali del comune si è risoluto concordamente di traslocarsi l’ospedale nel soppresso monastero dei Celestini sito in campagna e distante bastantemente dall’abitato, chiudersi l’ospedale dopo disinfestato con sfumicazioni muriatiche, farsi chiudere tutte le sepolture delle chiese con lamia e mattonato, facendoci prima buttare molta calce, e non più aprirsi, farsi spazzare maggiormente le strade del paese due volte la settimana, come anche farsi chiudere vari locali terranei abitati da poveri già morti, con disinfettarli prima con le sopradette fumicazioni muriatiche, vari fondaci che servono d’occasione d’immondezze; trasferirsi il carcere attuale ridotto in pessimo stato nel torrione della casa del sig. don Francesco Ciafardoni siti nella Rocca; chiudersi ermeticamente le due sepolture del cimitero, con farsi uso per l’avvenire giornalmente dei scavi della profondità secondo il numero dei morti, che vi saranno alla giornata, e quindi dopo averci buttata della calce coprirsi almeno con quattro palmi di terra e mattonato. (…) inoltre si è risoluto farsi un notamento esatto dei poveri atti alla fatiga ed obbligarsi giornalmente d’andare al travaglio delle strade, come anche farsi una nota degli altri poveri impotenti e ricoverarli nell’Ospedale dove dovranno essere provveduti coi sussidi del Governo, dell’Ospedale stesso e dei buoni cittadini, dandosi loro una zuppa economica … >>
Dunque come mai non si è conservata nessuna memoria di questa ecatombe mentre noi, al contrario, viviamo nel più completo marasma e terrore?
Forse perché la nostra società non accetta più la morte, l’ha fatta divenire tabù e questo non è un bene.
L’uomo che vuole andare su Marte e salvare il pianeta, come potrà essere padrone del proprio destino se non è in grado di accettare, confrontarsi e misurarsi con il proprio destino ineluttabile?
A questo servono forse anche le pandemie, per farci rimettere i piedi nuovamente a terra.
Noi esseri fragili ed imperfetti che vogliamo scioccamente giocare ad essere Dio.
Lorenzo Valloreja
Concordo pienamente sulla riflessione fatta a proposito della forza della natura che periodicamente ci costringe a misurarci con la sua forza, ed ammettere che siamo piccoli piccoli ed impotenti…. presuntuosi ed ahime’ troppo spesso garantisti del male. Credo che, ” assimilato ” questo concetto, tutte le altre riflessioni fatte trovino risposte. No, non e’ il rifiuto della morte….ne’ porsi alla destra del Padre….e’l’IGNORANZA il vero bubbone che offusca le menti, e’la mancanza di CULTURA a 360 gradi che sta’ trascinando questa civilta’ nel baratro, e’ la PRESUNZIONE dei deboli a prevalere sulla realta’!