IN “QUI RIDO IO” UNO STRAORDINARIO TONI SERVILLO E LA NASCITA DEL DIRITTO ARTISTICO DI DERIDERE.

Anche Venezia 78 non ha smentito la tendenza delle industrie cinematografica e culturale di stretta omologazione.

Zero “pericolose” descrizioni e messe in scena della “pandemia” e di tutto quello che ci hanno costruito, e ci stanno costruendo, attorno. Sapete da chi, prima o poi, me lo aspetto? Da qualche grande “deviante” quale Oliver Stone, o magari da un imprevedibile quale Paul Schrader (il regista del bellissimo film su Mishima del 1985).

Storie di ripiegamento intimistico e autobiografico (il film di Bellocchio presentato a Cannes ruotante sul suicidio del fratello fa coppia, con evidenza, con la tragedia dei genitori di Sorrentino uccisi dal monossido di carbonio, in vacanza a Roccaraso).

Esaltazione obbligata di tematiche portanti del sistema. Questa volta la gettonatissima omosessualità batte la fiacca, laddove è andato alla grande l’aborto del francese L’ evenement di Audrey Diwan premiato come miglior film.

Mi piace qui però, soffermarmi (atto obbligato per un foglio schiettamente dannunziano come questo) su Qui rido io di Mario Martone, con un imponente Toni Servillo nei panni di Edoardo (o Eduardo, lo stesso dilemma per Edoardo o Eduardo De Filippo figlio naturale) Scarpetta.

Il film è un magnifico affresco dell’Italia dei primissimi anni del Novecento (soprattutto meridionale ovvero ex borbonica) che si affacciava alla modernità e allo sviluppo sociale ed economico con il sorriso, grandi aspettative, e ottimismo. Un periodo (detto per il mondo in genere belle epoque) che mi ricorda vagamente gli anni Settanta e Ottanta della mia adolescenza e prima giovinezza. E soprattutto, cresceva culturalmente: Gabriele D’ Annunzio, fu una sua icona, come oggi si direbbe, se non una pop star (insomma, un Vittorio Sgarbi moltiplicato dieci o venti).

E proprio il Pescarese (nume tutelare della bellezza creativa della lingua italiana moderna), cinicamente provocato nel suo pur legittimo orgoglio intellettuale dagli interessi della SIAE, si scontrò in tribunale, in una causa addirittura penale sul supposto plagio, con il popolarissimo capocomico partenopeo. Costui aveva osato scrivere e mettere in scena Il figlio di Iorio, parodistico volgere al maschile della ben più famosa tragedia dannunziana tra l’altro ispiratrice di un magnifico, grande quadro di Francesco Paolo Michetti che attualmente adorna una sala della sede della Provincia di Pescara.

Scarpetta vinse il contenzioso, che fece scuola e dottrina non solo in Italia: nacque il “diritto di parodia”. Ma si capì anche che, a parte danni alle “tasche” a livello di diritti di autore, il Grande rimane sempre grande, e il guitto (che lo si chiami capocomico, artista o quel che pare) alla fine sempre tale resta, col suo dialetto e i suoi più o meno riusciti frizzi e lazzi. Cosa forse spietata e ingenerosa.

A. Martino

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