OTTANTA ANNI FA A GIARABUB, GLI ITALIANI CONFERMARONO DI ESSERE FIGLI DI ROMA

Inchiodata sul palmeto
Veglia immobile la luna
A cavallo della luna
Sta l’antico minareto

Squilli, macchine, bandiere
Scoppi, sangue! Dimmi tu
Che succede, cammelliere?
È la sagra di Giarabub!

Colonnello, non voglio il pane,
Dammi il piombo del mio moschetto!
C’è la terra del mio sacchetto
Che per oggi mi basterà

Colonnello, non voglio l’acqua
Dammi il fuoco distruggitore!
Con il sangue di questo cuore
La mia sete si spegnerà

Colonnello, non voglio il cambio
Qui nessuno ritorna indietro!
Non si cede neppure un metro
Se la morte non passerà

Spunta già l’erba novella
Dove il sangue scese a rivi
Quei fantasmi, sentinella
Sono morti o sono vivi?

E chi parla a noi vicino?
Cammelliere, non sei tu!
In ginocchio, pellegrino
Son le voci di Giarabub!

Colonnello, non voglio il pane,
Dammi il piombo del mio moschetto!
C’è la terra del mio sacchetto
Che per oggi mi basterà

Queste le commoventi strofe di una delle canzoni italiane più patriottiche di sempre: più tragica della Canzone del Piave perché non aureolata dalla Vittoria, senza la minima goliardia come Faccetta nera, senza retorica come i canti risorgimentali. Assai virile e “legionaria”, altro che Lili Marleen che parla di prostitute sotto un lampione e di soldati alquanto vigliacchetti. A tratti persino truce, come truce d’ altronde è la guerra, ogni guerra. E soprattutto perdente, senza vidimatura politicamente corretta, scomoda e da dimenticare: l’esatto contrario di Bella ciao, insomma.

Parlo de La sagra di Giarabub, canzone di guerra scritta nel 1941 da Alberto Simeoni e Ferrante Alvaro De Torres e musicata da Mario Ruccione,Giarabub è anche titolo di un film patriottico e di propaganda che uscì nel 1942,con minore immediatezza (per l’ inevitabile maggior tempo occorrente all’industria cinematografica rispetto a quella discografica).  

Giarabub è una oasi nella regione libica della Cirenaica, considerabile il nostro primo tentativo (riuscito) di salvare l’ onore in un conflitto nel quale era già chiaro che ben difficilmente, le nostre forze armate (Regio Esercito, Regia Marina, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale ecc.) sarebbero riuscite a stare al passo dell’ alleato tedesco, a prescindere dall’ esito finale. E i nostri velleitarismi (attacco solitario alla Grecia, avanzata nel deserto egiziano senza un adeguato armamento pesante e una vera linea logistica) lungi dal rilanciarci e renderci autorevoli nell’ Asse, indebolivano politicamente Mussolini dinanzi a Hitler e facevano individuare all’ avversario l’ Italia come “ventre molle” del blocco continentale fascista.

L’ 8 dicembre 1940 le forze britanniche e del Commonwealth lanciarono l’operazione Compass: non aveva grandi ambizioni, se non quella di saggiare la consistenza e le capacità delle forze italiane in Libia. Fu un disastro, ma per l’Italia: decine di migliaia di prigionieri, gli inglesi dilaganti in Cirenaica; i non trascendentali ma pur sempre possenti carri Matilda contro le nostre “scatolette” grosse quanto poco più di una utilitaria FIAT. Il comandante in capo dell’area, Maresciallo Rodolfo Graziani, riesce a tornare in Italia e ivi resterà “trombato” e in preda ad esaurimento nervoso per il disastro.

Ovviamente, gli atti di coraggio singoli, i sacrifici di singole unità per coprire la fuga di altri dall’ annientamento o dalla prigionia, non mancarono.

Ma fu a Giarabub la resistenza più accanita, disperata e protratta. Alla fine lo stesso comandante, il maggiore Salvatore Castagna fu ferito alla testa da una scheggia: dove non riuscì la fanteria australiana riuscì la mancanza di viveri ovvero la fame. Il 21 marzo 1941, bandiera bianca ma con il cavalleresco onore delle armi. Salvatore Castagna chiuse, da generale della Repubblica, una gloriosa carriera.

Ci possono parlare quanto vogliono di “follia nazionalista”, possono additarci con abiti sartoriali e cravatte di seta dal nodo perfetto “a cosa porta il sovranismo” (termine ignoto nel 1941), e potrebbero persino aver ragione.

Ma la memoria di Giarabub o di Bir El Gobi o El Alamein, o di Gela o delle cariche alla sciabola tra i girasole dell’oceanica pianura russa, non riusciranno mai a rubarcela.

A. Martino

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