04 NOVEMBRE FESTA DELLA VITTORIA!
Quest’anno ricorre il centenario dell’unica grande guerra vinta senza se e senza ma dal nostro Paese, la I Guerra Mondiale, e come storico sono a dir poco esterrefatto per il revisionismo storico/ideologico che si sta applicando all’intera vicenda. Infatti se a questo conflitto l’Italia partecipò fù soltanto per:
- Terminare il proprio processo di unificazione (vedi annessione: della Vanezia Giula, con Trieste e Pola; del Trentino e del Sud Tirolo con Trento e Bolzano; della Dalmazia con Zara) che tuttavia – iniziato nel 1860 dalla dinastia sabauda – non trovò compimento alla Conferenza di Pace di Parigi nonostante la vittoria ufficiale degli italiani (vedi mancata annessione di Fiume, Sebenico e Spalato)
- Allargare il proprio Impero coloniale a discapito, in primis, del morente Impero Ottomano – attraverso la cessione, da parte della Sublime Porta, dei territori di Smirne, Konya e Antalya (cessione che sarà impossibile a causa delle medesime promesse fatte dai Governi dell’Intesa al Regno di Grecia) – e poi dell’Impero Prussiano. Da quest’ultimo, in Africa, avremmo dovuto ottenere il Tanganica ed il Kamerun ed invece, anche in questo caso, i francesi e gli inglesi si guardarono bene dal mantenere le loro promesse e pensarono di spartirsi il bottino da soli.
Questa mancanza di serietà da parte dei nostri Alleati ingenerò in Italia il mito dannunziano della cosiddetta “Vittoria Mutilata”, mito, quest’ultimo, che ben presto diventò stato d’animo collettivo e che favorì, prima l’ascesa del fascismo e poi, il dilagante consenso di Mussolini.
Se una classe aristocratico/borghese, colta e patriottica, voleva fortemente un’Italia unita e potente essa fu fatta senza dubbio con la mite ubbidienza di contadini ignoranti, poveri ragazzi che, nella maggioranza dei casi, furono mandati al macello non per loro volontà ma perché coscritti.
Ebbene la celebre frase di Costantino Nigra: << Usi obbedir tacendo, e tacendo morir >>, in quel tempo, non era solo il motto dei Reali Carabinieri ma poteva essere tranquillamente inscritta tra le parole d’ordine per ogni buon soldato italiano.
Al netto delle fucilazioni per insubordinazione o diserzione, o delle decimazioni di cadorniana memoria, Vittorio Emanuele III era ben conscio del sacrifici dei propri soldati e per questo, nel 1919, approvò la nuova legge elettorale che consentiva a tutti gli ex combattenti, anche minorenni, il diritto di voto. Era la ricompensa di una Nazione vittoriosa ai propri figli.
Rispetto alla legge elettorale precedente, cioè quella del 1912, la nuova normativa estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni o avessero prestato il servizio militare. Andava insomma in soffitta il censo. Veniva inoltre introdotto il sistema proporzionale in modo da tradurre in forza parlamentare il crescente consenso delle due grandi organizzazioni politiche di massa allora esistenti, cioè il Partito Popolare da una parte ed il Partito Socialista dall’altra.
Questa in sintesi furono le ragioni che ci portarono ad entrare in Guerra contro gli Imperi Centrali e queste furono le conseguenze di quell’immenso sforzo bellico.
Ora è chiaro che simili situazioni siano completamente incompatibili con l’attuale assetto politico istituzionale dell’Europa ed ecco spiegato anche il perché, quando cantiamo il nostro inno nazionale, ci fermiamo alla prima strofa ripetendola due volte, così come il ritornello, mentre il Canto degli italiani, in realtà, è composto da ben 6 strofe. Questa è la versione integrale:
RITORNELLO
«Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò»
PRIMA STROFA
«Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa
Dov’è la Vittoria?!
Le porga la chioma
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.»
SECONDA STROFA
«Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo,
Perché siam divisi
Raccolgaci un’Unica
Bandiera, una Speme
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò»
TERZA STROFA
«Uniamoci, amiamoci
L’unione e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore
Giuriamo far Libero
Il suolo natio
Uniti, per Dio,
Chi vincer ci può!?»
QUARTA STROFA
«Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò»
QUINTA STROFA
«Son giunchi che piegano
Le spade vendute
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute
Il sangue d’Italia
Il sangue Polacco
Bevé, col cosacco
Ma il cor le bruciò»
SESTA STROFA
«Evviva l’Italia
Dal sonno s’è desta
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma
Ché schiava di Roma
Iddio la creò»
In un’Europa pacifica e asservita alla Germania può un Paese come l’Italia continuare a parlare di “Balilla” o manifestare la volontà di voler spennare l’aquila austriaca? Certo che no!
Così si moltiplicano le trasmissioni televisive, imbottite con il politicamente corretto, nelle quali si:
- Parla della I Guerra Mondiale come di un’inutile carneficina;
- Tenta di propinare il Milite Ignoto come un monumento/monito alle atrocità della guerra;
- Esalta il valore delle istituzioni europee che hanno garantito, in tutti questi anni, la pace nel vecchio continente;
- E’ passati dal considerare il 4 novembre da “Festa della Vittoria” ad una generica Festa delle Forze Armate fedeli ai valori della Costituzione Italiana nata dai valori dell’antifascismo.
A questo punto, per tutto quanto fin qui detto, un’ultima considerazione mi è d’obbligo: al di là di come ognuno di noi la possa pensare sulla guerra – visto che l’Italia ha lasciato come proprio contributo sull’Altare della Patria ben 651 mila vittime militari, più altri 589 mila civili – non sarebbe umanamente giusto, dignitoso e congruo, proprio per onorare la memoria di tutte quelle vittime, perorare sempre e solo la verità, senza cercare di declinare tutti questi morti alla nostra squallida propaganda transazionale? Penso proprio di si … diversamente, immagino come gli possano “girare”, a chi è morto impigliato nel filo spinato falciato dalla mitraglia del nemico, sentirsi definire avanguardia della futura democrazia.
Lorenzo Valloreja
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