DOPO CINQUANTA ANNI, RINGRAZIAMO YUKIO MISHIMA PER IL SUO TERRIBILE E SUBLIME SACRIFICIO
«Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro.» |
(da Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, traduzione di L. Origlia, Feltrinelli) |
Potrebbe mai un giornale sovranista e nazionalista intestato al disperato patriota foscoliano, ignorare il cinquantesimo anniversario del sublime terribile sacrificio di Yukio Mishima, il giapponese fratello nello spirito che nel Pantheon de L’ Ortis occupa una nicchia di primaria grandezza?
Potrebbe mai dimenticarsene lo scrivente, tradizionalista oltre che sovranista e nazionalista?
“Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”
Questo fu uno dei passaggi dell’ appassionato discorso e autentico testamento spirituale di Yukio Mishima (Tokyo 1925- Tokyo 1970), pseudonimo di Kimitake Hiraoka, che ritengo massimo scrittore giapponese e soprattutto faro morale dall’ attualità persino accresciuta per qualunque sovranista, ma anche e piuttosto direi, per qualunque non omologato e non sottomesso di qualunque patria e di qualunque ideologia persino. Ma naturalmente, per i lobotomizzati del Pensiero Unico è solo un “esponente del neofascismo giapponese”.
Ma il fascismo in Giappone non è mai esistito se non nella prima metà del secolo scorso un forte risveglio tradizionalista influenzato sì dai nazionalismi europei e dall’ implacabile anticomunismo, ma assolutamente specifico e incentrato sul culto dell’ Imperatore quale figura semidivina assimilabile in qualche modo al Caesar romano degli ultimi secoli prima di Costantino; o forse e più esattamente ai Romolo e Remo di divina progenie dato che la dea Amaterasu sarebbe la progenitrice di una dinastia fascinosamente ininterrotta e persino senza un nome.
La mattina del 25 novembre 1970, Mishima assieme ad alcuni fidi della sua Associazione degli scudi, milizia privata puramente simbolica e rispettosa della legge, si recava presso il comando della “forza di autodifesa del Giappone” (ridicolo nome di quanto rimaneva, consentito dagli americani, dell’ esercito imperiale) e il suo pianificato colloquio col comandante si trasformava nel sequestro di costui, teorico prologo di una vera e propria insurrezione nazionalista. Lo scrittore e patriota, cinta la testa dalla rituale fascia del milite imperiale, chiese che un reggimento si schierasse per ascoltare il suo discorso e decidere se unirsi al tentativo rivoluzionario, ma ciò non avvenne: anzi, dal reparto in formazione arrivarono solo scherno e insulti.
In realtà, l’ultimo comandante samurai aveva ritenuto del tutto probabile tale esito, e aveva persino, come un normale scrittore, affidato all’ editore la sua ultima importante fatica.
Non gli rimase che, solennemente ossequiato tre volte l’ Imperatore, aprirsi il ventre nel rituale seppuku con una specie di spadino (a ciò servirebbe la più piccola delle katana dei trii offerti a ignari appassionati di armi bianche), e farsi decapitare dal luogotenente Masakatsu Morita (forse suo amante) che non vi riesce forse per l’ emozione. Anche costui si suiciderà ritualmente, e alla decapitazione di entrambi provvederà la salda mano di un altro seguace di Mishima, il campione di kendo Hiroyasu Koga.
Premetto che, da cristiano, mi è impossibile accettare la logica del suicidio, anche perché la vita mi ha riservato la responsabilità di persone che hanno bisogno di me il più a lungo possibile, così come a tantissimi di noi. Nella sua estremizzata purezza ideologica e spirituale, Mishima non si fece scrupolo alcuno di abbandonare una vedova e soprattutto due figli in tenera età. Da questo punto di vista, la sua scelta appartiene a un particolare ordine spirituale, che un po’ lascia sgomento il non appartenente a una cultura orientale e tradizionale e viene facilmente bollato da visioni empiriche e materialiste come “fanatismo” se non “follia” o “manifestazione di disagio” (quest’ ultima espressione mi dà particolarmente fastidio nel suo compatimento).
Non ne mancano comunque esempi anche nell’ ambito europeo e occidentale, basti pensare al sacrificio estremo di un Palach o, meno noto e degli ultimi anni, di un Dominique Venner dentro Notre Dame de Paris (si veda il mio CINQUANTA ANNI FA IL TERRIBILE SACRIFICIO DI JAN PALACH E DEI SUOI AMICI. LA DISPERAZIONE DEI LIBERI. ) del 24 gennaio 2019.
Yukio Mishima, già nella sua opera aveva descritto, nel racconto Patriottismo il seppuku di un ufficiale assieme alla giovane moglie, disgustati (già in epoca prebellica !) dall’ imborghesimento del Giappone e dall’ impossibilità dell’ eroismo e dell’ Azione.
E infatti, il culto dell’ Azione lo portò ad avvicinarsi al nostro D’ Annunzio, di cui fu traduttore nella sua lingua. A proposito del rapporto con l’ Italia, ricordiamo che Alberto Moravia lo visitò in Giappone ricavandone l’ impressione di un finissimo intellettuale del tutto occidentalizzato e “decadente”. Il seppuku lo disorientò da tipico uomo di cultura ma di sinistra, profondamente borghese e omologato, non essendosi reso conto che Mishima non osteggiava affatto l’ Occidente e la sua cultura che maneggiava benissimo, ma cosa esso aveva significato e significava per il suo popolo e la sua terra martoriatane come nessuna. Moravia aveva travisato la profonda cultura anche occidentale di Mishima, e non capì neanche il profondo senso del clamoroso e apparentemente (per un borghese occidentale, appunto) autodistruttivo gesto; e che col suo nichilismo da terrazzone romano vista Colosseo non aveva nulla, ma proprio nulla da spartire.
D’ altronde, bisogna riconoscere che l’ ambiguità è fondamentale nella cifra stilistica di Mishima. Si pensi anche alla questione della sua presunta omo o bisessualità che si divertì ad alimentare facendosi fotografare come San Bartolomeo martirizzato, o in pose da “macho” culturista seminudo e brandente la katana; e anche qui vi sono rimandi al Vate nudo in spiaggia.
Il suo gesto non è stato del tutto vano, se ancora sta lì a illuminare i nemici dell’ omologazione mondialista e a colpire nello stomaco qualunque modernista e pensierounicista. E d’ altronde il Giappone è ancora una relativa (certo, in residuale misura assolutamente insufficiente per i suoi canoni) isola felice nel mare del mondialismo (si veda il mio BANZAI! del 23 ottobre 2019). E a proposito, bisogna anche riconoscere che i partecipanti alla giornata del 25 novembre 1970 (reati gravissimi, secondo almeno i canoni della Repubblica italiana ) furono condannati a pene detentive davvero miti, e scarcerati dopo qualche mese come a riconoscere la nobiltà del gesto.
La drastica scelta di Mishima sta a dimostrare la straordinaria frustrazione che non solo l’ occidentalizzazione, ma i valori occidentali stessi, possono portare nel dissenso più consapevole e maturo: Mishima viveva, e noi viviamo, in uno straordinario totalitarismo dissimulato e ipocrita cui non sembra esservi rimedio che la ribellione solitaria, e in fondo e purtroppo, sterile almeno nell’ immediatezza delle conseguenze.
Venticinque anni erano bastati per mettere l’ Impero del Sol Levate al guinzaglio, dopo essersi avviati alla distruzione totale della terra e degli uomini, pezzo dopo pezzo e città dopo città.
Il migliore suo epitaffio, anche perché proveniente dalla terra del nemico del Giappone per eccellenza, lo pronunciò il grande ribelle e anticonformista della letteratura Henry Miller, accomunandolo non solo ovviamente ai kamikaze e ai samurai, ma anche agli spartani.
Accanto alla sua testa mozzata, si trovò un biglietto: “ La vita è breve ma io vorrei vivere per sempre”.
A. Martino
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