CINQUANTA ANNI FA PROFONDO ROSSO. UNA SVOLTA EPOCALE PER TUTTO IL CINEMA, CON UNA CERTA PROFETICITA’ PER OGGI POLITICAMENTE E VISIONARIAMENTE SCORRETTA.

Cinquanta anni fa (esattamente il sette marzo 1975), uscì nelle sale italiane il lungometraggio Profondo rosso diretto da Dario Argento, destinato a rivoluzionare e influenzare tutto il cinema thriller a forte tensione (non siamo ancora all’ horror del futuro maestro Argento anche se ignorantemente e superficialmente tale continua a essere definito pure da sedicenti esperti di cinematografia).
Il trentacinquenne cineasta romano si era già fatto notare con scritti cinematografici importanti quali Scusi lei è favorevole o contrario?, o la collaborazione alla sceneggiatura di Il buono il brutto e il cattivo. E nel 1970 passa con straordinario risultato di pubblico alla macchina da presa con L’ uccello dalle piume di cristallo, snobbato dalla critica. Nel 1973 girò probabilmente l’unico e esclusivo suo prodotto registico in cui la violenza non è psicotica o metafisicamente radicata, ovvero Le cinque giornate (cioè quelle milanesi del 1848, con un discreto Adriano Celentano).
Ma è nel 1971 che, con raro incalzare produttivo e pari tensione artistica (roba inconcepibile nell’anemia, se non agonia, cinematografica di oggi), con ben due film il mite sognatore di incubi ancestrali, dal volto stranamente in linea con un certo immaginario gotico, fa irruzione a Cinecittà e nel cinema mondiale. Già ricordai nel 2021, quest’altro cinquantenario anch’esso testimoniante l’inesorabile invecchiamento non solo del più esclusivo vino ma anche del miglior cinema, ormai morente a beneficio delle monotone fictions sull’apparato poliziesco-giudiziario e delle deprecabili piattaforme non meno omologanti e appiattenti il gusto e l’immaginario.

Indubbiamente i due film del ’71 Quattro mosche di velluto grigio e Il gatto a nove code sono dei thriller puri di innegabile scuola hitchcockiana almeno come linguaggio narrativo, pur se la loro violenza e crudezza fa intuire che Argento si muoverà su praterie finora non percorse. Ma lo stesso Maestro angloamericano, nel 1972, al suo penultimo film Frenzy, irromperà come a togliersi freni inibitori, nella violenza e nella sessuale perversione omicida (il Maestro si ispira allo straordinario Allievo, o semplicemente è lo sfilacciarsi postsessantottino delle maglie censorie?). Forse, ma non mi consta salvo smentite che prontamente accetterei, che Hitchcock abbia visto le prime fatiche argentiane, e che tra i due vi sia stata una qualche corrispondenza diretta.
Certa è, secondo tante parole in fondo scontate di Argento, e persino con citazioni grafiche di ormai introvabili manifesti (allora i film di successo ne avevano spesso diversi) che sir Alfred influenzò Dario Argento, il quale però superò nettamente, quanto a estetica della violenza e del crimine psicopatico, e in una fotografia terribile nella microscopia del crimine e straordinariamente surreale specie nell’ambientazione delle notti urbane, il maestro anglosassone.

Esempio pratico: se la povera Laurie di Psycho (1960, prudentemente in bianco e nero) al secolo Janet Leigh soccombe sotto il coltellaccio macchiato di sangue (ma appunto in bianco e nero) più famoso della storia del cinema e il regista ci risparmia i particolari dell’efferato atto, Argento non rinuncia assolutamente al Grand Guignol del colore (sennò che profondo rosso sarebbe) e quel tipo di arma del delitto con relativi effetti e modalità di uso ci fa ancora adesso accapponare la pelle.
Alla faccia dell’odierna mitologia woke del “patriarcato”, sempre da Psycho, Profondo rosso parrebbe mutuare la tematica della madre “tossica” che avvelena la mente del figlio. In Psyscho però, tutto si riconduce alla catastrofica gestione da parte di Norman-Anthony Perkins della relazione con la madre persino morta e mummificata.
Invece in Profondo rosso, la cara mammina massacra il marito e padre di Carlo-Gabriele Lavia (e tutti gli altri a seguire quando il bambino è solo apparentemente cresciuto, lo individueremo solo alla fine) sotto gli occhi di un povero pargolo in una moralmente orribile sequenza dinanzi all’albero di Natale e ai soliti pacchetti di regali (feroce sarcasmo sul “matriarcato”, e profetica visione del dissolvimento della famiglia consumistica). Dopo la transizione di Profondo rosso (1975) ormai costitutivo dell’ immaginario cinematografico di massa e persino di un modo di dire relativo alla finanza (anche se si era pensato a La tigre dai denti di sciabola), arriverà la inattesa ma non imprevedibile svolta horror e metafisica con Suspiria del 1977 ; tuttavia Argento continuerà a operare su un doppio binario, non negandosi persino lo splatter da sceneggiatore e produttore ( la “demonica” duologia di Lamberto Bava di Demoni e Demoni 2).
La collaborazione con i Goblin per le colonne sonore senza snobbare altri grandi come Ennio Morricone, è stata poi straordinariamente fortunata per l’apprezzamento della celluloide stessa (cosa rara nel cinema e comunque assai difficilmente tanto importante): chi ignora, anche analfabeta del pentagramma, l’organo elettrico agghiacciante di Profondo rosso o la stupenda melodia tra sabba e Carmina buriana di Suspiria?
Grazie al casting del film, Dario conoscerà Daria (Nicolodi) cui subito farà una corte serrata ma garbatissima, e da cui avrà la vulcanica seconda figlia, Asia.
La madre di Carlo (che nella finale katastrophé perisce orribilmente come il figlio che la sua follia ha bacato) è nella vita reale quella Clara Calamai, diva del Ventennio, che poteva vantare il primo seno nudo del cinema italiano o forse europeo (sdraiato) come Doris Duranti l’analoga nudità ma stando in piedi: bizzarro distinguo perché, nella loro rivalità, si contendevano persino un simile primato.
La Calamai morirà ottantanovenne (in pace, non certo come in Profondo rosso) nel 1998.
A. Martino
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