PER GIORGIA MELONI IL TEMPO DELL’AMBIGUITA’ STA PER SCADERE, E IL SUO DESTINO POLITICO COMPIERSI. CON TRUMP O SULLA BARCA EUROPEA CHE AFFONDA, PERCHE’ CI VORREBBE TROPPO CORAGGIO PER ABBANDONARLA?

L’accelerazione nella ricomposizione dei rapporti russo-americani, in uno scenario semplicemente impensabile non solo fino a prima della rielezione di Donald J.Trump ma anche fino ai primi venti giorni dall’insediamento del quarantasettesimo presidente statunitense, traccia scenari complessi e geopoliticamente epocali su cui dovremo necessariamente ritornare anche sulla base di sviluppi in continua evoluzione.

La reazione di Trump alle osservazioni di Zelensky circa una presunta sua eccessiva acquiescenza alle condizioni, e alla narrazione, russe (comportanti tra l’altro l’assenso americano alla necessaria indizione di elezioni in Ucraina sinora bloccate dalla legge marziale), assecondata anche da ulteriori affermazioni del vice presidente Vance è sì coerente con la dialettica spiccatamente reattiva del tycoon, ma diplomaticamente del tutto straordinaria.

Trump ha attaccato ( o meglio contrattaccato, come detto) con durezza fino a metterla sul personale l’omologo di Kiev, definendolo un «dittatore mai eletto» e un «comico di modesto successo che ha convinto gli Stati Uniti a spendere 350 miliardi di dollari per entrare in una guerra che non poteva essere vinta, che non sarebbe mai dovuta iniziare, e che lui, senza l’America e Trump, non sarà mai in grado di risolvere». «L’unica cosa in cui è stato bravo è stato suonare Joe Biden come un violino», prosegue in un messaggio su Truth, dicendo che ha fatto un «pessimo lavoro», e attaccando pure l’Europa che «ha fallito, non è riuscita ad ottenere la pace».

La crisi nella relazione Kiev-Washington è al momento confermata dall’incontro di oggi giovedì 20, fra l’inviato speciale Kellogg e lo stesso Zelensky, non chiuso da una conferenza stampa non desiderata da Kellogg.

Oltre che la suscettibilità di The Donald infiammata da una qualche allusione a quel Russiagate che tribolò buona parte del primo mandato presidenziale, credo che egli abbia “sbottato” anche a seguito della rivelazione di qualche giorno fa di Zelensky, fra l’ingenuo e lo spavaldo, di aver personalmente bloccato la cessione delle famose terre rare (roba sui cinquecento miliardi di dollari) imponendosi ai suoi ministri.

Si aggiunga a tutto questo il rifiuto statunitense di firmare, nell’ambito di quello che io chiamo il commemorazionismo, una dichiarazione ONU come un’altra del G7, trattanti di “aggressione russa”.

E’ un vero e proprio ciclone sulla geopolitica europea o meglio eurocratica, in cui la posizione della nostra premier è molto delicata, forse insostenibilmente.

Diciamola francamente, alla faccia di qualunque tifo di squadra e delle sue troppo comode schematicità del genere “rossi contro neri”: a Giorgia Meloni andava assolutamente meglio Kamala Harris alla Casa Bianca. La pacca sulle spalle (metaforica, perché fisicamente un po’ complicata) allo sconfitto ci sarebbe sicuramente stata a uso e consumo del suo elettorato più di bandiera, ma con la “gattara senza figli” sarebbe stato tutto più semplice e soprattutto senza alcuna frizione sia con il Colle sia con Bruxelles. “Fascista”? Ma a chi: sarebbe bastato tirar fuori il cellulare, andare in Galleria e mostrarle la foto del bacio di Biden sulla testa bionda (gli abbracci con Zelensky, sarebbero stati scontati altrimenti non si sarebbe trovata dove si trovava).  

Adesso invece, con Trump che pure, a modo suo come d’altronde già con lo stesso Zelensky, non le lesina sperticati apprezzamenti e dieci in pagella ( è la sua pur umorale e un po’ beffarda signorilità), tutte queste foto sono emblematicamente scomodissime. Ma non irrimediabili: basterebbe schierarsi irreversibilmente e chiaramente con gli USA rimettendosi a capo chino come Realpolitik esige ai loro negoziati in stile Yalta ma senza un Churchill obeso col suo sigaro e travestito da generale britannico; e un piccolo segno potrebbe esservi stato con il rifiuto italiano di sottoscrivere un appello a favore della Corte penale internazionale. Basta con la favola che inizia “c’erano una volta un aggressore e un aggredito”, o con l’illusione che fu della conferenza di Roma sulla ricostruzione da spartirsi persino sulle aree occupate dai russi. Come si dice dalle parti mie, chiusa una porta si apre un portone (o magari, Musk vede e provvede).

La Kermesse mondiale dei Conservatori a Washington potrebbe essere lo scenario di questo atto storico di una Giorgia che recide il vassallaggio eurocratico mentale prima che politico, ma con tutto il rispetto la signora non mi pare avere il necessario coraggio per farlo, o meglio per sostenerne le conseguenze nelle ovattate stanze del Quirinale o al cospetto della baronessa von Der Leyen. E in questa direzione andrebbe la notizia dell’ultima ora per cui, con non promettente scelta, Giorgia Meloni presenzierà a Washington solo da remoto (avrebbe allora ragione la Schlein, col suo “presidente del coniglio”?).

In caso di conferma di fede russofobica in quanto strettamente eurocratica, però, si troverebbe dinanzi alla furia politicamente vendicativa del tycoon dalle cui leve in Italia (datate ottanta anni) neanche Mattarella, ammesso che ne fosse interessato, riuscirebbe a salvarla. Assai significativa, e per noi mera conferma, l’entusiastica adesione di Giuseppe “Giuseppi” Conte alle parole di Trump: imprevedibili per il principale alleato del PD ma non impensabili per l’ex dittatore sanitario ma amico di Trump; e non improbabiili per un “progressista non di sinistra” maestro di adattabilità che però neanche nei momenti più oscuri della traversata nel deserto di Trump mai ne ha preso le distanze.

A. Martino  

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