IL CASO SALVINI DIMOSTRA CHE LA GIUSTIZIA NON ESISTE, MA SOLO LA IMPONDERABILITA’ DI QUESTA O QUELLA SENTENZA. COSA CI INSEGNA LA NOSTRA EREDITA’ LATINA.

L’assoluzione del ministro e senatore Matteo Salvini è già stata egregiamente commentata e politicamente analizzata dal direttore di questa testata. Il sottoscritto non può che, a sua volta, rallegrarsi dell’esito giudiziario positivo per il leader leghista.

Due aspetti della vicenda mi lasciano però perplesso e pessimista, giacché non mi pare che, nelle stanze del potere (anche di quello diciamo più ipercritico verso la magistratura) ve ne sia una lucida percezione e tanto meno la volontà di porvi rimedio.

Il primo è che il vaglio giudiziario di un atto d’imperio ministeriale e governativo (credo finora unico nel nostro ordinamento) è avvenuto, e potrà ripetersi. Pensiamo a una eventuale limitazione del diritto di sciopero la quale anche se autorizzata dal TAR potrebbe dar luogo a esposto o denuncia penale; o a una qualunque compressione di richieste di “diritti” della piattaforma LGBTQI+.

Il secondo è stato raffigurato plasticamente dall’ansia vissuta e confessata dallo stesso Salvini che, assieme alla sua compagna, al suo legale e ai suoi sostenitori in loco a Palermo, ha atteso, come qualunque altro cittadino, un verdetto in fondo come sempre imprevedibile, che ti può portare al settimo cielo o sprofondare negli inferi della riprovazione sociale e umana. In simili circostanze, un palazzo di giustizia appare grottescamente assimilabile, come sfida al destino,  a un casinò (d’altronde, a essere bendate sono sia Giustizia che Fortuna, o no?).

Ma qual è il discrimine, la linea di confine, tra la salvifica assoluzione e la dannatrice condanna?

Qualcuno mi direbbe: le leggi, la legalità, etc. Risposta formalmente esatta e persino scontata, ma filosoficamente fragilissima a cui gli uomini (o più nel concreto e nel nostro meschino specifico, le odierne italiche istituzioni) non hanno saputo finora dare una migliore risposta di quella fornita dall’immortale verso 454 dell’opera di Terenzio “Formione” datata attorno al 160 a.C. .

Ovvero, “quot homines tot sententiae” poi diffuso persino popolarmente come “ quot capita tot sententiae”. Cioè: tante le persone (o le teste) tante le opinioni. Interessante inoltre che il nostro vocabolo (comune e giuridico) “sentenza” corrisponda al latino “iudicium”, mentre “sententia” corrisponde appunto, al nostro lemma “decisione” o “opinione”. Il pessimismo terenziano è parallelo, in una civiltà come quella romana ritenuta madre del Diritto di stampo europeo, alle tronfie certezze dei grandi giureconsulti (Cicerone in primis) corrispondenti in un certo senso alla odierna “fiducia nella magistratura” o più metafisicamente “nella giustizia” (la quale ultima scrivo volutamente con la g minuscola).

Il che non è certo consolatorio, ma quanto meno aiuta a guardare con superiore distacco alle sciocche e banali quanto generiche rassicurazioni del Sistema: non è una soluzione, ma una constatazione. E suggerisce di sforzarsi, e pregare, di vivere il più lontano possibile da tribunali e dintorni.   

A. Martino

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