PER L’EX FIAT CIÒ CHE È MIO È MIO, CIÒ CHE È TUO… È PURE MIO. ADESSO BISOGNA SOLO VEDERE SE SARÀ COSÌ ANCHE PER IL FUTURO
Carlos Tavares si è dimesso da CEO di Stellantis e, per il suo “fantastico” operato, potrebbe ricevere una liquidazione stimata intorno ai 100 milioni di euro. Figurarsi cosa avrebbe potuto incassare se il gruppo da lui rappresentato fosse stato gestito come la FIAT ai tempi di Vittorio Valletta.
Ai tempi de “il professore”, gli amministratori delegati dei grandi gruppi percepivano uno stipendio solo quindici volte superiore a quello dei propri operai. Oggi, invece, siamo nell’ordine di cento volte il salario lordo di un lavoratore. Ed è proprio questo il problema, perché, non dimentichiamolo: la forma è sostanza!
Ad esempio, la produzione della “Topolino” è stata delocalizzata dall’Italia al Marocco, solo ed esclusivamente perché, lì, un lavoratore percepisce al massimo 650 euro al mese, contro i 910 euro della Serbia, dove si realizza la “Grande Panda”, e i 1.690 euro spettanti a un metalmeccanico italiano, che produce modelli come la “500X”, la “Tonale” o la “Giulia”. Eppure, nella scelta del CEO, nessuno si preoccupa di verificare nei curricula chi percepisce di meno, anche se molti di questi, come comprovato dal tracollo di numerose aziende, sono francamente degli inetti.
Certo, non è che la classe politica mondiale, a confronto con i capitani d’industria, brilli per capacità e rettitudine, ma fatto sta che la croce degli sbagli alla fine ricade sempre e solo sulle povere spalle degli ultimi, siano essi lavoratori o semplici acquirenti.
Così, nel caso specifico, dove la FIAT – che oggi si chiama Stellantis – occupa circa 45.000 lavoratori nei propri stabilimenti ufficiali e, con il proprio indotto, dà lavoro a altre 150.000 unità, cioè all’1% del totale degli impiegabili, e contribuisce, a dire poco, a più del 2% del PIL italiano, sarebbe un vero dramma nazionale se dovesse chiudere i propri stabilimenti.
Ed in uno scenario apocalittico simile, a chi dare la colpa?
Semplice! Stando a ciò che scrivono, in contraddizione tra di loro, “i professionisti dell’informazione”, la colpa dovrebbe essere affibbiata in egual misura sia alla politica – nella sua declinazione comunitaria, in quanto colpevole di aver spinto oltremodo sul pedale dell’acceleratore della decarbonizzazione forzata a tutti i costi, compresi quelli di essere fuori mercato rispetto ai propri competitor orientali e alla maggior parte dei possibili acquirenti occidentali – che nazionale, poiché, nel totale consociativismo, nessuna forza, né di maggioranza né di opposizione, ha mai effettuato il proprio compito di controllore.
La colpa va anche al Gruppo Fiat prima, e Stellantis poi, per la propria voglia di delocalizzazione, manifestata fin dalla metà degli anni ‘90, quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, Fiat iniziò a produrre immediatamente in Polonia, nello stabilimento di Tychy, la Fiat 126p, un’auto economica che divenne simbolo della motorizzazione di massa nei Paesi dell’Europa orientale. Con la produzione in loco della Fiat Panda e della 500, Tychy divenne il centro più significativo del gruppo, soppiantando le commesse al Bel Paese. Questa voglia di delocalizzazione è continuata e si è ampliata durante l’era Marchionne, tanto che nel 2009 la Fiat trasferì la sua residenza fiscale a Londra, come parte della strategia per prepararsi alla fusione con la Chrysler. Nel successivo 2014, dopo la creazione della FCA, la residenza fiscale fu nuovamente spostata, questa volta ad Amsterdam, nei Paesi Bassi.
Lo stesso Sergio Marchionne, pur legatissimo alla sua terra d’origine, l’Abruzzo, nel 2009 definì la FIAT come una “tassa patriottica”, a voler sottolineare che all’azienda sarebbe convenuto scappare via dall’Italia. Ma se rimaneva nel Bel Paese, lo faceva solo per amor di Patria, e quindi ognuno, dagli operai alle istituzioni, doveva fare la propria parte di sacrifici per il bene di tutti.
Sacrifici che, nella secolare storia della FIAT, i cittadini e le istituzioni, hanno compiuto perlomeno una decina di volte sborsando cifre che, se si fosse proceduto alla nazionalizzazione della stessa ogni qual volta lo Stato è intervenuto, sarebbe costato alla collettività molto di meno.
Quindi nulla di nuovo sotto il sole per chi conosce la realtà o che non fosse già facilmente prevedibile se si fosse usato la logica, come scontate e stucchevoli sono state le dichiarazioni dei nostri soliti politici, chi impegnato a sperare nel buon cuore di Joan Elkan che, sempre secondo questa versione, avrebbe messo alla porta Tavares per la propria intransigenza ecologica che ora sarebbe completamente evaporata a favore di posizioni più negazioniste; chi a invocare un intervento provvidenziale di Macron in questa questione, in quanto altra parte interessata alla vicenda, non fosse altro per la partecipazione dello Stato Francese al gruppo PSA che con la vecchia FCA, ha dato vita a Stellantis. Versione questa quanto meno pietosa non fosse altro perché in queste ore, con la crisi del Governo Barnier, Macron è letteralmente sotto un treno e figuriamoci se può farsi carico anche dei lavoratori italiani.
In realtà, la soluzione c’è, ma per applicarla l’Italia – come la Gran Bretagna, e tra qualche mese la Germania – dovrebbe essere fuori dall’Unione Europea per avere libertà d’azione.
Nello specifico, dovrebbe avocare a sé tutti gli stabilimenti FIAT che, sono in pochi a saperlo, sono già di proprietà dello Stato Italiano e sono stati dati semplicemente in concessione, come si affida il demanio o i loculi cimiteriali, a questa società d’individui. Fatto ciò, semplicemente, la Repubblica Italiana dovrebbe registrare la ragione sociale di una nuova azienda automobilistica ed utilizzare tutte le maestranze italiane che prima lavoravano per Stellantis per produrre tutti i modelli e motorizzazioni che ritiene più opportuno produrre per le esigenze dei propri cittadini … e poi vediamo, senza stipendi stellari dei dirigenti e progetti cervellotici, se questa azienda avrebbe le gambe per camminare o no …
Lorenzo Valloreja
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