TAVARES ED I NOSTRI POLITICI NON LO SANNO, MA SARANNO GLI ALBERI A SALVERE L’AUTOMOTIVE ITALIANA
Non mi vergogno di ammettere che l’attacco di Calenda e Conte a Tavares, durante l’audizione davanti alle Commissioni riunite delle Attività produttive della Camera e dell’Industria del Senato, mi ha provocato una vera “erezione cerebrale”. Finalmente, stavo ascoltando politici che sembravano voler riaffermare il primato della politica sulla finanza.
Il settore dell’automotive, specialmente in Italia, è sempre stato un’industria particolare. Infatti, si è distinto per il fatto che, quando le cose andavano bene, grazie a una sorta di monopolio e agli incentivi alla vendita (finanziati con denaro pubblico), i profitti finivano nelle mani delle aziende e dei loro investitori. Tuttavia, al primo segnale di calo nelle vendite, le stesse aziende non esitavano a richiedere la cassa integrazione per i propri dipendenti, ottenendo ammortizzatori sociali che, ancora una volta, erano pagati dai cittadini attraverso le loro tasse.
Unica nota positiva di questo sistema è che, per decenni, ha permesso a un gran numero di italiani di avere un lavoro stabile, consentendo loro di pianificare il proprio futuro. Inoltre, poiché queste aziende erano di proprietà di famiglie italiane, i capitali rimanevano nel Paese, arricchendo così il Sistema Paese.
Ma da quando la Fiat, in occasione della fusione con Chrysler, ha trasferito la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra, e successivamente, nel 2021, si è ulteriormente fusa con il gruppo francese PSA, dando vita a Stellantis, tutto è tragicamente cambiato: il ruolo dell’Italia e del popolo italiano è diventato marginale. Questo cambiamento lo abbiamo osservato quando l’amministratore delegato di Stellantis si è presentato in Parlamento senza riuscire a pronunciare nemmeno una parola in italiano, neanche il classico “buongiorno”. E già solo per questo, per i miei gusti, sarebbe stato opportuno accompagnarlo alla porta senza neppure farlo parlare.
Se fosse stato per me, avrei addirittura minacciato la nazionalizzazione di tutti gli stabilimenti presenti in Italia, oltre al sequestro dei beni della stessa. Ma ahimè, siamo prigionieri dell’UE e di tutta una serie di regole “farlocche” che ci impediscono di usare metodi, diciamo così, poco ortodossi, che sarebbe giusto adottare, un po’ come fece Putin nel 2009 con la società Mechel, una delle principali aziende siderurgiche russe, obbligata dallo “Zar” a rispettare le norme e i diritti dei lavoratori.
Ma, al di là di questo, raffreddando i miei bollenti spiriti ed usando la ragione, devo riconoscere a Tavares di aver detto la verità in un passaggio, quando ha affermato che: “I regolamenti decisi, che sono alla base della situazione attuale, non sono stati imposti da Stellantis … se non volete elettrificare il mercato, non c’è bisogno di nessuna gigafabbrica; altrimenti, c’è bisogno”. Questo, tradotto in un linguaggio più comprensibile, significa: “Avete voluto la bicicletta della conversione del mercato del trasporto dal carbone all’elettrico? Ora vi tocca pedalare! Non siamo stati noi a aver imposto questa follia al mondo!”
E come dargli torto? In fondo, la politica di questi ultimi decenni ci ha troppo spesso abituati a repentini dietrofront che, volenti o nolenti, hanno causato effettivi danni agli imprenditori. È stato così, ad esempio, nel 2016, quando si permise, prima, la coltivazione di Cannabis sativa con un contenuto di THC inferiore allo 0,2%, per poi tornare indietro sul THC, causando non pochi danni a chi pensava di farne un affare. Sarebbe stato, in tale contesto, molto più sensato non consentire fin dall’inizio, come in passato, la coltivazione della Cannabis.
Allo stesso modo, è stata l’UE a forzare la mano sulla decarbonizzazione del trasporto e sul passaggio ai veicoli elettrici attraverso norme più stringenti sulle emissioni di CO2, il lancio del “Green Deal Europeo” e la promozione di programmi come “Horizon 2020” e “Next Generation EU”, oltre al sostegno alla produzione di batterie (EBA). Solo ora che la Volkswagen sta considerando la chiusura di alcuni dei suoi stabilimenti in Germania, ci si è resi conto dell’enorme “cazzata” che si è fatto.
D’altronde cosa può mai fare la piccola Europa quando il primo emettitore di CO2 al mondo è la Cina con i suoi 10 miliardi di tonnellate l’anno, seguita subito dopo dagli Stati Uniti con 5 miliardi di tonnellate e dall’India con i suoi 2,7 miliardi di tonnellate? Nulla! E dal punto di vista industriale, effettivamente, se si tornasse indietro, per le fabbriche sarebbe ancor più dannoso, visto che cospicui investimenti sono già stati effettuati.
Ma tanto è, e mai come in questo caso, è impossibile salvare capre e cavoli. Dunque, meglio non seguire la Cina su un terreno dove non vi è partita e continuare a fare principalmente quello che abbiamo sempre saputo fare: i motori a scoppio.
Infatti, se si vuole veramente salvare il mondo dalla CO2, il segreto non sta tanto nel togliere il carbone, quanto nel ripiantare gli alberi!
Dalla rivoluzione industriale a oggi, si stima che siano circa 3 trilioni gli alberi persi nel mondo, cioè circa 420 milioni di ettari di foresta. Arbusti che avrebbero potuto assorbire circa 66 miliardi di tonnellate di CO₂ all’anno… altro che decarbonizzazione con tutti i costi ambientali per costruire e alimentare queste famose auto elettriche.
Il mondo e il clima possono essere salvati; basta poco, “che ce vò?”Ripiantumate gli alberi e vedrete che tutto tornerà come prima.
Lorenzo Valloreja
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