LA SOLUZIONE ALL’EMERGENZA MIGRANTI ED AL DIRITTO CI CITTADINANZA È TUTTA NELLA STORIA D’ITALIA, NON ALTROVE
Complici le ferie di agosto, la controffensiva ucraina nella regione di Kursk e le trattative per evitare una rappresaglia iraniana, i disordini in Gran Bretagna sembrano essere evaporati e nessuno ne parla più. Tutto è stato derubricato a semplici tafferugli voluti e organizzati dall’estrema destra inglese, che ha ricevuto, tra l’altro, una pronta risposta non solo dal Governo, ma anche dall’opinione pubblica, scesa numerosa in piazza la settimana successiva alle rivolte, scoppiate a causa dell’accoltellamento a morte di tre minori (Bebe King di 6 anni, Elsie Dot Stancombe di 7, e Alice Dasilva Aguiar di 9) per mano di un diciassettenne di Cardiff di origini ruandesi, Axel Rudakubana.
E invece no, il fuoco cova ancora sotto la cenere, e non è solo un problema della Gran Bretagna, ma di tutto il mondo occidentale, che è diventato sterilmente “ateo” e ha perso tutta la propria consapevolezza. In altri termini, non avendo più idee forti, non sapendo più chi siamo, da dove veniamo e qual è la nostra missione nel mondo, crediamo che gli altri, più affamati di noi e con in testa idee prepotentemente forti, ci lascino vivere in pace a casa nostra, come abbiamo fatto fino a qualche anno fa, solo perché, nella nostra sciocca visione, noi, tendenzialmente, non diamo fastidio a nessuno; insomma, rispettiamo la nostra e l’altrui privacy, ma non è così! È da bambini e irresponsabili pensare questo.
D’altronde, è sotto gli occhi di tutti: il modello di integrazione francese – di tipo assimilazionista, che si basa sul concetto di uno Stato laico che non riconosce diritti e trattamenti speciali alle minoranze etniche, ma che anzi favorisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge – ha fallito miseramente. Il modello anglo-americano – che contempla, accanto al principio di pari opportunità, anche il riconoscimento della diversità culturale e che può dunque essere definito multiculturalista – ha fallito anch’esso, nonostante i migranti e i loro figli siano coinvolti nella vita politica di questi Paesi; si pensi, ad esempio, al caso di Kamala Harris negli Stati Uniti e di Rishi Sunak in Gran Bretagna. E nonostante ciò, hanno visto nascere, da una parte, il movimento Black Lives Matter e, dall’altra, le rivolte dei primi di agosto 2024.
Da un punto di vista puramente asettico, invece, il modello tedesco – di tipo funzionalista, ispirato cioè all’esclusione differenziale, che prevede, quindi, l’inserimento dei migranti soltanto in alcuni ambiti sociali (in particolare nel mercato del lavoro), negando loro, al contempo, il diritto di partecipare alla vita politica e di acquisire la cittadinanza – sembra, superficialmente, essere quello che ha meno problemi, ma non è così. È evidente, infatti, come questo modello, così formulato, dia, prima o poi, origine a numerose problematiche e criticità, a partire dal trattamento riservato alle seconde generazioni.
Persino gli antichi romani, nella loro infinita saggezza, fallirono totalmente dal punto di vista della gestione della cittadinanza, tant’è che una delle cause principali della caduta dell’Impero Romano è proprio da attribuire all’eccessiva tolleranza verso le religioni non italiche e alla concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero. A un certo punto, addirittura, i pagani – che un tempo erano la maggioranza ed avevano accesso alle più alte cariche pubbliche dell’impero – iniziarono ad essere perseguitati dai cristiani durante il IV secolo d.C.: i loro templi furono rasi al suolo, le biblioteche bruciate e i loro sacerdoti e praticanti, in alcuni casi, linciati da una folla di esaltati, come accadde alla povera Ipazia di Alessandria, uno dei più grandi matematici, filosofi e astronomi del mondo antico.
E questo accadde e sicuramente accadrà di nuovo – come infatti previsto dal multimiliardario americano Elon Musk che, commentando i fatti di Gran Bretagna su “X”, ha scritto: “una guerra civile è inevitabile” – perché il diritto alla cittadinanza è strettamente legato alla gestione del potere. E, in fondo, la vera questione è tutta lì, vera croce e delizia di tutte le élite, siano esse progressiste o conservatrici, così come globaliste o sovraniste. Infatti, coloro che vogliono integrare i migranti lo fanno principalmente per rimpinguare il loro bacino elettorale, sfruttando i nuovi votanti per cacciare dal Governo i loro oppositori o mantenere lo status quo, qualora siano essi stessi i detentori delle massime cariche. Allo stesso modo, coloro che sono contrari alla concessione della cittadinanza lo sono perché vogliono fidelizzarsi con gli elettori autoctoni e mantenere la società così com’è oggi.
Ma al di là di questo gioco degli scacchi politico, è evidente che la concessione o il riconoscimento di determinati diritti civili, quali ad esempio il diritto alla cittadinanza e con esso il diritto al voto e all’assistenza, non sono cose che possono essere pretese e concesse in forma gratuita solo perché se ne ha diritto, ma sono cose che dovrebbero essere riconosciute perché il singolo individuo o i loro discendenti se lo sono guadagnati sacrificandosi per la società in cui vivono.
Per essere più chiari, in Italia, ad esempio, a seguito della Prima Guerra Mondiale, con la legge 16 dicembre 1918, n. 1695, fu concesso il voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni di età o che avessero prestato servizio nell’esercito mobilitato, come compensazione per l’enorme prezzo pagato in vite umane ai fini della vittoria. E ancora, sempre in Italia, con la fine della Seconda Guerra Mondiale fu riconosciuto il voto anche alle donne per l’impegno profuso nella lotta partigiana, mentre nella civilissima Svizzera, che non aveva conosciuto le devastazioni dei due conflitti, le donne poterono votare ed essere votate a livello federale solo a partire dal 1971. Anche lo ius sanguinis, che si applica ai figli dei nostri migranti e loro discendenti, ovunque essi siano, si applica in virtù del fatto che i nostri migranti hanno contribuito in maniera determinante, con le loro rimesse in valuta pregiata, prima a ricostruire l’Italia e poi a farla grande.
È quindi normale che in un Paese come l’Italia, dove il welfare è stato fondato dai nostri trisavoli (parliamo infatti del 1861), ripetere a pappagallo la frase che “i migranti contribuiscono con il loro lavoro al pagamento delle attuali pensioni” sia fuori luogo e capzioso perché, per quanto pregnante, una simile affermazione non tiene conto di tutto quanto è stato fatto prima e dopo questo servizio da parte degli italiani che non ci sono più e dei loro eredi.
In conseguenza di ciò, la cittadinanza va concessa, come tra l’altro già si fa – visto che l’Italia è in Europa il primo Paese per valori assoluti di cittadinanze concesse. Nessuno ne concede più di noi. La Spagna è seconda, la Germania è terza, la Francia è quarta; agli opposti, poi, ci sono terzultima l’Austria, penultima la Repubblica Ceca e, udite udite, ultima la piccola Malta della Presidente Metsola – ma con parsimonia.
Come al solito, è brutto ricordarlo, ma è bene sapere che le Nazioni si costruiscono con il sangue e non con le chiacchiere o il rispetto dei Diritti. Cosa hanno fatto finora questi nuovi italiani per questo Paese? Nulla di più di quello che stiamo facendo noi che siamo loro coetanei ma, c’è un ma, noi non siamo delle monadi sperse nell’universo, noi siamo anche il nostro passato e, come una casa, l’Italia ha visto le fondamenta realizzate dai nostri nonni, le mura tamponate dai nostri padri e, attualmente, noi non solo abitiamo in questa casa, ma abbiamo l’obbligo di manutenerla e sorvegliarla. Sempre secondo questo esempio, permettereste mai a un vostro amico al quale avete prestato gratuitamente una stanza di buttare la mobilia che vi è dentro, di murare delle porte e delle finestre e di aprirne delle altre? Penso proprio di no!
Ecco, coloro che arrivano sono i benvenuti in questa casa e, siccome non pagano e usufruiscono di questo tetto, è giusto che ci diano una mano nel riverniciarla e nel ripararla, ma mai e poi mai potrebbero cambiare la destinazione d’uso di questo edificio né buttarci fuori. Magari, con il tempo, i loro figli sposeranno le nostre figlie e diventeremo un’unica famiglia, ma sempre nel rispetto del luogo e della città in cui è ubicata questa casa. Ed è qui che si innesta il problema della convivenza e dello scontro tra culture che, nella stragrande maggioranza dei casi, è inevitabile, a meno che non si segua l’unico modello veramente vincente che l’umanità abbia mai visto, messo in atto per quasi mille anni prima dal Regno di Sicilia e poi da quello di Napoli.
Ma cosa fecero questi leader meridionali di così innovativo e funzionale? Semplice! Allorquando, nell’Italia meridionale, come sempre accade nella storia dell’uomo, gli autoctoni erano numericamente insufficienti a far girare il sistema Paese, i sovrani meridionali accoglievano nel sud della penisola non tutte le comunità che si presentavano dall’estero, ma solo quelle ritenute opportune e in un numero tale da essere considerato gestibile. Fu così, ad esempio, per i saraceni, gli ebrei, i croati, così come per gli albanesi.
Nel caso di questi ultimi, ad esempio, è noto come siano stati dislocati in circa una ottantina di piccoli centri tra Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise e Abruzzo. Queste comunità, che anticamente erano cristiane ortodosse, furono obbligate a riconoscere l’autorità del Papa e quindi a diventare cattolici di rito orientale, per evitare problemi religiosi. I loro nomi e cognomi furono immediatamente modificati dal corrispettivo albanese alla lingua italiana volgare dell’epoca. Le leggi, gli usi e i costumi rispettati dovevano essere quelli del Regno Siciliano e Napoletano. Insomma, pur mantenendo nel segreto delle loro case la famosa lingua arbëreshe, gli albanesi d’Italia si confusero e si identificarono nei secoli con il popolo italiano. Tant’è che, se incontrate un signore che ha per cognome Schirò, Rada, Dara o Dragani, e magari ha per nome Luigi, Antonio, Marco o Giovanni, mai immaginereste che sia di origine albanese, eppure è così. E perché accade ciò? Perché la comunità arbëreshe, dato il numero esiguo dei propri componenti, la locazione a pioggia lungo tutto lo Stivale e la particolare gestione politico-amministrativa di queste comunità, è stata completamente assimilata dalla società italiana. In altri termini, non è lo Stato dell’epoca che si è adattato agli albanesi, ma semmai sono stati questi ultimi a doversi adeguare, ob torto collo, alle comunità autoctone presenti nel circondario.
In altri termini, i regnanti meridionali perseguirono una politica di assimilazione forzata e obbligata verso piccole comunità, sparpagliate appositamente per tutto il regno, e questa scelta si rivelò vincente. Ad eccezione di quella saracena di Lucera, nessuna tentò mai di ribellarsi o sottrarsi al giogo delle autorità dell’epoca.
La stessa cosa andrebbe fatta ora: piccoli numeri di migranti, scelti in base alla loro volontà di adeguarsi e seguire non solo le nostre leggi, ma anche i nostri usi e costumi, sparpagliati in maniera uniforme su tutto lo Stivale. Per coloro che, per motivi religiosi, sarebbero più riottosi ad adeguarsi al nostro stile di vita – penso, ad esempio, ai musulmani di prima e successive generazioni – si dovrebbe pensare a un Islam tutto italiano, cioè a degli imam formati esclusivamente dallo Stato italiano. Ciò comporterebbe effettuare la preghiera e la predica esclusivamente in lingua italiana, con un’interpretazione del Corano che sia quanto più possibile tollerante verso la visione che noi abbiamo della donna e dei costumi. Se volete, potremmo parlare anche di una forma di apostasia dell’Islam originario, ma questa sarebbe l’unica soluzione pratica per impedire che forze esterne al nostro Paese lavorino ai fianchi di queste nuove religioni per tentare di cambiare la società italiana in un senso a loro favorevole.
La pace e la difesa dell’ordine costituito nella nostra penisola e in tutta Europa, piaccia o non piaccia, passeranno anche attraverso questi metodi poco ortodossi e unidirezionali. Sta di fatto che è sempre meglio avere una condotta più rigida con i nuovi cittadini che con i vecchi, e non come hanno fatto ultimamente in Gran Bretagna, dove, come nel film “V per Vendetta”, una squadra di “castigatori” è pronta a scandagliare i social per poi procedere con gli arresti, in quanto anche la sola condivisione del materiale sulle rivolte potrebbe essere un reato. Siamo insomma davanti all’introduzione del reato d’opinione, cosa non nuova qui in Italia, ma di certo una novità per la “Perfida Albione”. E quando si iniziano a percorrere le strade dei reati politici, si sa da dove si inizia, ma non si sa mai quando e come potrebbe finire.
Benpensanti avvisati, mezzi salvati…
Lorenzo Valloreja
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