“GAMMATTE”: OVVERO STORIA DEL FILO ROSSO CHE LEGA L’ABRUZZO ALLA PALESTINA
Al di là di tutti i difetti che noi italiani riconosciamo a noi stessi e di cui gli altri ci accusano, è fuor di dubbio che il nostro popolo sia uno dei più empatici al mondo, e quello abruzzese, tra tutte le genti italiche, forse lo è ancor di più.
Capita così che, con il tragico ritorno della violenza in Palestina, terre apparentemente così lontane e popoli altrettanto diversi per cultura e tradizioni, ci sembrano, d’un tratto, più che mai familiari, tanto da considerare quelle sfortunate vittime come nostri fratelli.
Ma questa comunanza d’affetti non è solo da attribuibile alla tragedia della guerra, quanto ad un legame, segreto e antico come il mondo, che lega la Palestina e l’Abruzzo.
Pochi, infatti, sanno che la denominazione Palestina nasce con i Greci e precisamente con Erodoto il quale, nelle sue “Storie”, per la prima volta chiamò, la parte meridionale della Siria, “Palaistine”, in riferimento ai Filistei.
Questa popolazione, come gli Ebrei e gli Egizi, abitava quella regione condividendo con loro la pratica della circoncisione così come la residenza a sud delle coste della Fenicia.
Da qui l’ebraico Pelishtim (Filistei) e dunque il nome della omonima regione.
Tuttavia il termine ebraico “פְּלֶשֶׁת” (Peleshet) ha una duplice accezione, infatti sta a significare anche “invasione” o “migrazione”.
E fu proprio a causa delle invasioni ebraiche, iniziate intorno al 1200 a.C., e delle occupazioni successive degli Assiri e dei Babilonesi che gli abitanti della “Terra di Canaan” si dispersero, in diverse ondate, verso i luoghi più disparati.
Alcuni si stabilirono nell’attuale territorio dell’Etiopia, dando origine alle comunità dei Falascià, noti anche come “Ebrei neri”. Altri si diressero verso l’Europa, seguendo rotte già battute da popoli medio-orientali come Fenici, Pelasgi e Filistei.
Approdarono così nei principali porti della costa adriatica e il porto di Atri, ubicato nei pressi della foce del Cerrano, il torrente denominato in epoca romana “Matrinus”, fu sicuramente uno dei luoghi in cui si verificarono numerosi sbarchi.
Da qui i discendenti dai Filistei, risalirono le più ampie vallate che si affacciano in questo tratto dell’Adriatico, come quella del Saline, del Vomano, del Tordino e del Tronto, insediandosi stabilmente nell’entroterra.
Da qui il nostro antico legame con Terra di Canaan, poiché, in definitiva, nell’antichità, buona parte dell’attuale provincia di Teramo fu denominata “Palestina Piceni”, proprio in onore dei filistei che qui si erano in gran numero insediati.
La presenza di cittadini di origini medio-orientali aumentò notevolmente dopo l’espugnazione della Siria da parte di Pompeo nel 61 a.C.
Gruppi di ebrei deportati come trofei di guerra si stabilirono nella città di Roma e successivamente si spostarono verso la “Palestina Piceni” per relazionarsi con gente della loro stessa origine e che condivideva con questi ultimi la medesima lingua: l’aramaico.
Si pensi ad esempio al termine “bardasce” che nel dialetto abruzzese significa “bambino”, ebbene questo termine vernacolare deriva dalla combinazione delle parole aramaiche “bar”, che significa “figlio” e “enash”, che vuol dire uomo, dunque: “figlio dell’uomo”, locuzione piuttosto ricorrente nella Bibbia.
Altri fanno risalire l’origine etimologica del termine a una combinazione dei vocaboli aramaici “bar” e “Ishtar”, che era la dea della luna e dell’amore, oppure “Asherah”, che nella mitologia semitica era la Grande Madre; quindi, il “bar” di “Ishitar” o di “Asherah” nel dialetto locale per accorpamento diventa proprio “bardasce” e sta a indicare il “bambino”, inteso in senso lato come “figlio dell’amore”, “figlio legittimo”.
Un altro esempio di vocabolo dialettale derivante dall’aramaico è “gammatte” che sta a indicare il gomitolo o comunque un filamento arrotolato in maniera ordinata per evitare che si annodi.
Questo termine trae origine infatti dalla parola aramaica “אלמג”, cioè “gamal”, che significa per l’appunto “filo” o “corda”.
La spiegazione di tale etimologia, peraltro, è stata anche oggetto di un chiarimento, da parte di esperti di lingue antiche, del celebre equivoco verificatosi nella traduzione, dall’aramaico in greco koinè, del passo del Vangelo in cui si riporta la frase di Gesù «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno dei Cieli». L’immagine che traspare dalla lettura del passo, posta in questi termini, pur tenendo conto della trasposizione metaforica, è certamente bizzarra; ma, in realtà, è ormai confermato da tutti gli studiosi che nella traduzione del testo a suo tempo si verificò un clamoroso errore.
Infatti, per lo scambio di una vocale, la parola aramaica “gamal“, nella versione in greco koinè, fu tradotta in “kamelos”, che vuol dire “cammello”, anziché in “kamilos” che invece significa “filo” o “corda”.
Pertanto, la frase proferita da Gesù, verosimilmente, fu: «È più facile che il filo di un gomitolo passi per la cruna di un ago, che…».
Anche a livello genetico, nell’hinterland del porto di Atri rimangono tracce degli ebrei della diaspora babilonese. Statisticamente, circa il 15% dei pazienti di questa zona ha il gruppo sanguigno AB, caratteristico degli israeliti.
Ora se ciò non bastasse si tenga anche presente che il nome dell’attuale città di Teramo deriva dal latino
Interamnia che significa “tra i [due] fiumi” (inter-amnis), con riferimento, nello specifico, al Tordino e al Vezzola che attraversano questo capoluogo abruzzese. Ebbene, la dicitura “inter amnis” altro non è che la traduzione, dal greco, del termine “Mesopotamía”, cioè ” tra i due fiumi, e la Mesopotamia è proprio la regione storica da cui derivano tutti i popoli che parlano l’aramaico.
Ma i legami non finiscono qui.
Infatti la cosa più curiosa che unisce l’Abruzzo alla Palestina è senz’altro collegata alla figura di Ponzio Pilato, il Prefetto Romano che Governò la Giudea dal 26 al 36 d.C.
Ora, se sulla veridicità storica del personaggio evangelico nessuno ha più dubbi grazie ai ritrovamenti archeologici degli anni 50 e 70 del secolo scorso – prima a Cesarea e poi presso l’Herodium, dove furono rinvenuti rispettivamente: una lapide redatta in latino, coeva e ufficiale, diretta testimonianza degli atti di Ponzio Pilato dove viene indicato con il titolo di “praefectus Iudaeae” e un piccolo anello in bronzo, risalente al periodo di Tiberio, sul quale sono raffigurate una coppa da vino contornata, in caratteri greci, dall’iscrizione del nome Pilato – ancora accesa è la diatriba tra chi vorrebbe vedersi riconosciuti i natali del Prefetto che, per il sommo Dante, si macchiò di ignavia.
Ebbene tra queste località spicca senz’altro, per prove ed indizi, la cittadina di Bisenti, oggi tranquillo centro del teramano che al tempo dei fatti evangelici si chiamava Berethra ed era un importante municipium della Palestina Piceni. La sua ricchezza proveniva dal fatto di essere una cosiddetta “mansione”, cioè un “area di sosta” che si trovava in corrispondenza di ogni tappa, che non superasse le dieci ore di cammino, per ricetto di animali e passeggeri ed il cambio dei cavalli”.
Qui, ancora oggi, vi è un’antichissima casa che da tempo immemore gli abitanti del luogo chiamano “Casa di Pilato” al di sotto della quale si trova un “qanat”, cioè un sistema di distribuzione idrico molto diffuso nei territori mediorientali ma già esistente nell’epoca pre-romana nel territorio di Atri e delle quali oggi rimangono diverse fontane, e questo a ennesima conferma della presenza, già in tempi antichissimi, di popolazioni di origine semitica, nella cosiddetta Palestina Piceni.
Non si può dunque escludere che il qanat di Bisenti sia stato realizzato proprio da Ponzio Pilato che, grazie alla storiografia ufficiale, sappiamo aver costruito in Giudea, durante il proprio mandato, uno degli acquedotti più tecnologicamente avanzati dell’epoca e che strutturalmente è in tutto e per tutto simile al qanat di Bisenti.
Quello di Gerusalemme fu realizzato sul finire degli anni 20 del I secolo d.C. perché la Capitale della Giudea era afflitta da una siccità cronica: né la trentina di cisterne della città, né la fonte principale, cioè la piscina di Siloe, bastavano più a rifornire le migliaia di pellegrini che si recavano in città durante le feste.
Per risolvere questo annoso problema, Pilato decise di far costruire il più sofisticato degli acquedotti che, duemila anni fa, rifornivano d’acqua Gerusalemme.
Riguardo quest’opera, infatti, nel 2020, l’Università Ebraica di Gerusalemme, nell’ambito dei suoi studi di dottorato, in collaborazione con Yoav Negev, direttore del Gruppo speleologico israeliano, e con i colleghi dell’Università Ebraica Amos Frumkin e Uzi Leibner, hanno effettuato diversi sopraluoghi e studi, certificando come << Pilato non solo fu il Prefetto romano passato alla Storia per il Processo a Gesù, ma fu anche e soprattutto un grande urbanista occupandosi, di fatto, dello sviluppo delle infrastrutture urbane per l’approvvigionamento idrico e della rete stradale >>.
Ora, se prendiamo per buona la versione che indica quale costruttore, del qanat di Bisenti, Pilato, non è ancora chiaro se questa struttura sia stata realizzata prima che esso partisse per la Giudea o se invece sia stata realizzata dopo il proprio rientro.
Comunque sia, nel primo come nel secondo caso, Pilato, era l’unica persona a Bisenti che, non doveva mettersi in fila, insieme ai suoi concittadini, per attingere all’acqua della fontana.
Egli, infatti, grazie al pozzo presente nella propria domus, ed al qanat sottostante, disponeva di acqua potabile comodamente in casa.
Elemento, questo, senz’altro indicativo dell’importanza di colui che risiedeva in questa domus.
Altro elemento interessante da determinare è se quest’opera fu realizzata, attingendo alle ricchezze della gens Ponzia o piuttosto, cosa molto probabile, attraverso gli introiti delle diverse ruberie che spesso i governatori di provincia effettuavano, alla faccia della raccomandazioni imperiali di Tiberio, il quale invitava i suoi funzionari ad essere come il buon pastore che “deve tosare le sue pecore, non scorticarle!”.
Fatto sta che la gens Ponzia, a cui apparteneva Pilato, era un gruppo di famiglie di origine sannita che erano radicate nei diversi strati della società dell’epoca repubblicana. Il cognomen “Pilato”, invece, che significa “armato di pilum” (la lancia romana), suggerisce che la famiglia potesse provenire dai ranghi inferiori dell’esercito e non da una nobiltà consolidata.
La gens Ponzia aveva anche notabili personaggi nella sua storia. Tra di essi spiccano Erennio Ponzio, un condottiero sannita citato da Tito Livio, e Gaio Ponzio, figlio di Erennio, noto per la vittoriosa battaglia delle Forche Caudine.
Tra i più famosi membri della gens Ponzia c’è Quinto Ponzio Aquila, tribuno della plebe e complice nella congiura che portò all’uccisione di Giulio Cesare e per il quale la gens Ponzia fu esiliata in Abruzzo.
Qui, intorno al 20 a.C., venne alla luce Ponzio Pilato, figlio di Ponzio Sabino, e fu proprio in questo stesso territorio che il futuro Prefetto di Giudea conobbe e sposò Claudia Procula.
Quest’ultima, secondo alcuni storici, doveva provenire dall’ager Hatrianus, ovvero da una zona nel circondario della città di Hatria, cioè l’attuale Atri.
La moglie di Ponzio Pilato, quindi, essendo della “gens” Claudia, apparteneva alla medesima stirpe gentilizia dell’imperatore Tiberio Claudio Nerone, e questa cosa, insieme all’amicizia con il Console Lucio Elio Seiano, dovette influire non poco nella carriera del suo sposo, anche se, c’è da ribadire come, ciò che fu veramente determinante per l’incarico dato a Pilato in veste di Governatore della Giudea, è da ricercarsi nella sua conoscenza della lingua, usi e costumi dei popoli che parlavano l’aramaico, nozione, queste ultime, che egli aveva appreso nella sua città natale, Berethra, dai tanti ebrei e fenici ivi residenti.
La Palestina del I secolo d.C. era veramente una provincia difficile da governare: un territorio pervaso ma mille movimenti politici e millenaristi, con una religione, quella ebraica, che al tempo era caratterizzata da una forte chiusura mentale verso tutto ciò che era diverso da se perché si basava sulla convinzione, da parte dei propri fedeli, di essere l’unico popolo eletto da Dio, anzi, per dirla tutta, di essere il popolo consacrato a Dio.
Quindi questa convinzione ridondava inevitabilmente anche nelle relazioni con gli altri popoli.
Infatti l’essere consacrato a Dio comportava, secondo le Antiche Scritture, la separazione necessaria per preservare il popolo da ogni contaminazione.
Se a questo poi aggiungiamo il fatto che il popolo ebraico non aveva mai sopportato l’idea di avere, per Sovrano, un essere umano – tant’è che persino reali della stazza di Davide, prima, e Salomone, poi, risultavano essere a molti ebrei antipatici e questo perché, in vita, sotto il profilo religioso, non furono mai pienamente fedeli alla legge di Dio – va da se, dunque, che la missione di Pilato risultasse essere pressoché suicida, ma egli fu scelto ugualmente perché aveva i fondamentali per relazionarsi con delle persone così complicate così come avevano le medesime conoscenze i soldati romani che furono inviati in Giudea al servizio di Pilato.
In quel tempo infatti, svolgeva missione in Palestina la “X Legione Fretensis”, un unità composta da 6000 uomini, suddivisi in 10 “Coorti”, una di queste, grazie ai vangeli, sappiamo essere stata denominata “Italica” in quanto si riferiva al fatto che, tutti i militari in essa coscritti, provenivano, grossomodo, dal territorio dell’attuale Abruzzo, e questo perché, è del tutto evidente, il richiamo alla vecchia “Lega Italica”, ovverosia a quell’alleanza stipulata, tra i vari popoli dell’Italia centro-orientale (per l’esattezza trattasi dei Piceni, dei Vestini, dei Marrucini, dei Frentani, dei Peligni, dei Marsi, dei Sanniti, dei Pentri e dei Carecini) per combattere i romani, tra il 91 e l’88 a.C., in occasione della Guerra Sociale e che scelsero, quale loro Capitale, la città di Corfinio, un centro abruzzese situato nelle vicinanze dell’attuale città de L’Aquila.
Tra questi, vi era anche Longino, un centurione romano proveniente da Anxanon, l’attuale Lanciano (CH), città famosa per i propri traffici e fiere fin dal tempo dei romani e nella quale vi era una folta comunità di ebrei.
Dunque, anch’egli, come Pilato, imparò, da questi ultimi, usi e costumi, e come il Prefetto di Giudea anche la sua famiglia proveniva dai bassi ranghi dell’esercito, ma a differenza di Pilato, il cognomen Longino era spesso associato ad una delle gens più famose e potenti di Roma: la Cassia.
Famosissima a tal riguardo è stata, ad esempio, la figura di Gaio Cassio Longino, politico romano, che più di Quinto Ponzio Aquila, fu anch’egli tra i promotori della congiura che causò l’uccisione di Gaio Giulio Cesare nel 44 a.C. e per la quale egli, durante la battaglia di Filippi, si fece uccidere da un proprio servo, mentre i suoi parenti, come quelli di Ponzio Aquila, furono esiliati in terre lontane rispetto alla loro normale gestione del potere, e, nello specifico, alcuni rami dei “longini”, vennero confinati nella Frentania, terra la cui capitale era, per l’appunto Anxanon, municipium della “regio IV Samnium”.
Si badi bene inoltre che, da tempo immemore, il simbolo della X Legione Fretensis era il “Cinghiale”, animale sacro per il popolo dei Frentani e pertanto, prima, suo emblema araldico, poi, dell’”Apriutium citra flumen Piscariae”, e, infine, della Provincia di Chieti, come lo è ancor oggi.
Pertanto non fu un caso se i 600 coscritti della Coorte italica erano tutti della Palestina Piceni, così come lo fu certamente anche il Centurione Cornelio che – mentre la tradizione popolare lo vuole originario di Pineto, altra località della Palestina Piceni – i vangeli canonici ce lo descrivono semplicemente come un uomo pio e caritatevole.
Persino le monete battute da Pilato in Palestina durante il suo mandato ci parlano d’Abruzzo: il “lituus” e il ““simpulum”, infatti, per tecniche di produzione e dettagli stilistici, hanno delle sostanziali analogie con quelle emesse dalla zecca di Hatria (Atri) e non con quelle battute dal conio di Roma, per le quali si riscontrano evidenti differenze.
Insomma, il legame tra la Terra Santa e l’Abruzzo, dal I secolo in poi, si è fatto sempre più stringente tanto da far registrare il fatto che, per i più disparati motivi, oggi, nella terra di Celestino, si conservino: il Volto Santo, cioè il dipinto del volto di Gesù fatto realizzare, non da mano d’uomo, per “Abgar il Nero”, Re di Edessa; le Sacre ossa dell’Apostolo Tommaso; il primo “Miracolo Eucaristico” della storia, cioè le reliquie della trasformazione reale del vino usato, per la celebrazione eucaristica, in sangue e del pane in carne, e per conservare queste Sante Reliquie – unitamente ad altre due andate perse, cioè una spina della corona di Cristo ed il legno della Santa Croce – Pietro da Morrone, voleva potenziare la Basilica di Collemaggio, Chiesa da lui fortemente voluta e situata, non a caso, nella città de l’Aquila.
Infatti secondo Claudio Crispomonti, nobile scrittore e storico aquilano, del XVII secolo, il capoluogo abruzzese era stato fondato, nella sua prima edificazione, sulla pianta di Gerusalemme, tant’è che, dopo la distruzione di Manfredi fu riedificata: “dov’era prima, e se gli dà circuito di cinque miglia, e si compartisce in quattro quartieri (tanti quanti sono i quartieri della città vecchia di Gerusalemme: cristiano, ebraico, musulmano e armeno) … Presero il modello della Città Santa …conciossiacosachè il sito non e` molto diverso da quello. Ha questo un Torrente vicino, come quello di Cedron, che radeva presso le mura della Città Santa; il Monte Sion dentro la Città con la Rocca, e qui fu nel campo di Fossa in luogo più erto fabbricata una Cittadella per difesa della Città; era in quella il monte Calvario verso Occidente luogo da giustiziare i malfattori, e qui è Monte Luco nello stesso sito, ove sta piantata la croce in memoria di quello di Palestina, tanto onorato da quel Legno, ove diede la vita per noi il Salvatore; è stato il nostro parimente sempre luogo da dar le morti di giustizia. Finalmente ivi erano dodici le Porte, e quivi ancor dodici se ne vedono >>.
Ma le similitudini non finiscono qui: l’Aquila infatti è situata a 731 metri di altitudine mentre Gerusalemme si trova a 750 metri, e ponendo le due mappe della città una sopra l’altra si ottiene una sovrapposizione quasi precisa, che vede corrispondere il sud dell’Aquila con il nord di Gerusalemme.
Anche la simbolica Fontana delle 99 Cannelle, segno distintivo della città che, secondo la leggenda ricorderebbe le 99 parrocchie che unirono le proprie risorse per la fondazione de l’Aquila, nella realtà richiamerebbe la città di Gerusalemme che, ricordiamo, fu conquistata dai crociati nell’anno 1099 ed il numero 99 assume un significato ancora più eclatante se si pensa che 99,16 è il numero delle lunazioni che si verificano nel corso di 8 anni alla latitudine de l’Aquila; le coordinate della città sono latitudine 42″,21′ (la cui somma 4 + 2 + 2 + 1 = 9), longitudine 13″23′ (somma 1 + 3 + 2 + 3 = 9). Gerusalemme, invece, ha come numero 66, il valore numero corrispondente alla parola di Dio e l’Aquila, avendo il 99, altro non è che la versione occidentale della Città Santa.
Se teniamo conto di questo immaginiamo che effetto dovette sortire nella popolazione il primo e più celebre adventus aquilano: quello cioè di Pietro da Morrone, che nel luglio 1294, rifacendosi all’esempio del Signore, fece il suo ingresso a l’Aquila a dorso d’asino accompagnato da una gran folla, compiendo un gesto che di fatto conferiva alla giovane città, ancora in via di ricostruzione, il rango di una nuova Gerusalemme.
Una città, quella de l’Aquila che, sempre secondo il Crispomonti, ai tempi antichi in cui era in Amiterno la sua origine, vedeva i propri cittadini usare “la lingua ebrea, avanti la confusione delle lingue, poscia ebbero in uso la toscana, detta Saga, e appressovi servirono della latina”
Però, miracolo per miracolo, e sbalordimento per sbalordimento, c’è da sperare che una volta per tutte avvenga la grazia più grande, cioè la fine delle ostilità in Palestina e la pace per tutti gli uomini di questa umanità sofferente.
Lorenzo Valloreja
Lascia un commento