MARCELLO DE ANGELIS NON E’ IMPAZZITO METTENDO IMPROVVISAMENTE IN DISCUSSIONE L’ORACOLO GIUDIZIARIO SULLA STRAGE DI BOLOGNA. CI SONO DUBBI, ANCHE A SINISTRA, DA ALMENO TRENT’ANNI.
Quando il giustizialismo e la sentenziomania incontrano l’antifascismo di precetto e a prescindere, il risultato è devastante: la Ragione e la tolleranza si arrestano dinanzi alle mura del fanatismo e dell’intolleranza.
La prassi giudiziaria è solo un grande gioco, maledettamente serio; un po’ come la guerra, infatti tanto in un’aula di tribunale quanto sui campi di battaglia, l’esito è mai certo e scontato. Ma lasciamo perdere la polemologia (teoria della guerra): qui e oggi, ci interessa piuttosto la filosofia del diritto (anche se piuttosto spiccia oltre che politicamente scorretta fino all’ oscenità). Quindi, riprendiamo le fila del discorso.
Fondamentale è la differenza fra realtà sostanziale o storica, e realtà processuale.
Il giudice (segnatamente quello penale, in questo caso) non è uno storico o un giornalista d’inchiesta. E’ un pubblico funzionario (chissà se posso usare questa onorevole definizione o per qualcuno sono vergognosamente riduttivo) delegato dallo stato a pronunciare in certo giudizio, ergendosi tra il presunto reo e la pubblica accusa.
Ciò sulla base di tutta una serie di atti di polizia giudiziaria (a volte monumenti di poco pregiata letteratura anche se di migliaia di pagine, e chissà se chi di dovere le legge veramente tutte), ma anche e soprattutto di quanto in giudizio si afferma (secondo la teoria penalistica classica, il processo penale è precipuamente orale, almeno in teoria). Ivi infatti, si può ad esempio sconfessare una confessione, adducendo pressioni pregresse se non addirittura torture (linea difensiva potenzialmente dannosissima per l’accusa ma tutto sommato rara, dato il sostanziale timore reverenziale di tanti avvocati e il loro quieto vivere tra procure, questure etc; le difese “alla baionetta” sono più hollywoodiane che italiche).
Sulla base di questa dinamica, il magistrato in udienza a volte affiancato da una disorientata e timida giuria popolare a seconda della gravità del reato (e in Assise), cerca di esprimere una ricostruzione dei fatti abbastanza veritiera e professionale. Ho detto “cerca di esprimere”, non “esprime”: siamo dinanzi pur sempre a un tentativo umano, non a un oracolo. E si vi è una scienza inesatta, questa è il Diritto.
Tutto ciò dovrebbe raggiungere la “verità processuale”, che a un terzo grado di giudizio salvo casi particolari e rari di revisione del processo, si cristallizza. Altro indizio della natura non oracolare e trascendentale delle pronunce giudiziarie: perché non due gradi di giudizio, o magari quattro?
Questa è la realtà razionale e non mitologica dei procedimenti penali in Italia. Diciamo quindi che ogni sentenza va “rispettata” (nel senso che la mala fede del giudicante è fatto patologico e rarissimo, mentre fisiologico è magari l’autofuorviamento per proprie sovrastrutture mentali e culturali di chi ritiene di svolgere un’alta funzione, come in effetti è).
In virtù di tutto ciò, però, come può una sentenza non essere criticata, magari anche a sproposito? Fin quando essa lo è nei limiti del rispetto per chi l’ha pronunciata, che male c’è? Forse, in questi tempi di relativismo nichilista di stato, è lecito sghignazzare sulla Resurrezione di Cristo, ma non avanzare riserve, dubbi, perplessità, su una carta bollata (si fa per dire)? Si può affermare a quanto pare “io non credo” riguardo i massimi sistemi metafisici, ma non su un qualche passo del vangelo secondo ….il dottor Tizio o la dottoressa Caia. D’altronde, i dubbi o più, sulla colpevolezza di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti sono stati sollevati non solo qualche giorno fa dal portavoce della Regione Lazio Marcello De Angelis, ex partecipe della galassia della destra antagonista e radicale, scatenando un immane e sproporzionato polverone seguito da sue comprensibili scuse soprattutto verso il Colle più alto, ma anche da un vero e proprio comitato che andava sotto il nome semplice quanto eloquente “E se fossero innocenti?”. Per non parlare, solo per dirne una, della posizione di Francesco Cossiga.
Costituito da legali, giornalisti, associazioni, nacque circa trent’anni fa per la ricerca della verità sulla strage di Bologna. Ha dichiarato a ADN Kronos il militante di sinistra Sergio D’Elia che ne fece parte (ex Prima Linea ora dirigente di “ Nessuno tocchi Caino”): “Era un comitato composto da personalità prevalentemente della sinistra. Personalmente penso che quel punto interrogativo vada tolto, perché per me non ci sono dubbi sull’innocenza di Mambro e Fioravanti. Sono pronto a ricredermi rispetto a quello che ho sempre pensato ad una condizione, che si rendano pubblici tutti gli atti secretati sulle stragi. Ma non credo che succederà mai perché verrebbe smentito lo stereotipo della strage fascista scolpito sulla lapide in memoria delle vittime della strage di Bologna“. E aggiunge: “In questa vicenda la ragion di Stato prevale sull’amore per la verità perché continua ad essere mantenuto il segreto di Stato e perché organi dello Stato invece di cercare i veri responsabili hanno preferito offrire dei capri espiatori. Non aderisco a nessuna tesi sui responsabili, dico semplicemente che loro sono innocenti: è il mio libero e più profondo convincimento“.
Ma non basta. Nel 2007 il giornalista (sempre di sinistra) Andrea Colombo scrisse «Storie nere», sulla ritenuta innocenza di una delle coppie meno ammirate della Storia italiana. La presentazione del libro fu organizzata dal Corriere della Sera, con un intervento dell’allora direttore Paolo Mieli, che propose un interessante parallelismo con il caso Calabresi e la condanna di Adriano Sofri: «Fra qualche decennio quando gli storici analizzeranno queste vicende si stupiranno della illogicità assoluta dell’impianto accusatorio… il modo di procedere giudiziario è stato totalmente capovolto… era chiesto agli imputati di discolparsi, portando elementi ridicoli di colpevolizzazione… un caso mostruoso… Io non lo so, Mambro e Fioravanti potrebbero essere anche colpevoli ma sulla base di come sono stati giudicati, questi processi sono figli di un condizionamento culturale dell’epoca in cui si sono svolti, e basta. Ma la protervia con la quale coloro che sostengono la tesi della colpevolezza di Mambro e Fioravanti contro libri come questo non ha eguali. E anziché proporre argomenti accusano gli altri di essere dei poco di buono aldilà della biografia delle persone»…..un giorno quando rianalizzeremo questi fatti al di là delle bizzarrie dell’inchiesta diremo che ci furono degli episodi di civiltà. Per Sofri è un dubbio sacrosanto ma accettato, per le stragi nere è un dubbio non accettato, che è più prudente non esibire. E c’è sempre qualcosa di insinuante nel trattare persone che questi dubbi hanno manifestato. Ma se questo può giovare loro, io lo garantisco da storico, dopo la loro morte questi dubbi acquisiranno rilievo. E i dubbi saranno portati come esempio che non tutti nell’epoca in cui i fatti accaddero furono così stolti o intellettualmente disonesti o sciatti, da prendere per oro colato le verità rivelate e adeguarsi”.
Chissà se Paolo Mieli, in questi anni di soffocante “polizia del pensiero” e di fanatismo conformista, e di sospetta “lesa maestà” ad ogni starnuto, ripeterebbe ancora queste parole.
A. Martino
Lascia un commento