DANTE DI PUPI AVATI. FINALMENTE IL CINEMA ONORA ADEGUATAMENTE IL PADRE DELLA NOSTRA LINGUA.
Dal 29 settembre è in programmazione nelle nostre sale cinematografiche, il Dante di Pupi Avati.
Parlo volutamente del film con una certa solennità ( il Dante), dato che il suo regista lo considera l’opera della vita. Lo consideriamo autoriduttivo, data la straordinaria ricchezza del panorama cinematografico avatiano, spaziante con incredibile ecletticità e non chalance dall’horror al sentimentale passando per lo storico e il drammatico senza disdegnare la commedia di costume; mai con prodotti puramente commerciali (fossero pure i pochi televisivi), ma sempre intensi, originalissimi e fortemente stilizzati.
In tutta franchezza, se Pupi Avati non fosse profondamente cattolico e scarsamente modernista, la critica lo avrebbe osannato non so se più di un Ermanno Olmi o di un Bernardo Bertolucci, ma certo almeno quanto un Ettore Scola. Certo, la pellicola gode di un notevole sforzo produttivo e sta ottenendo incassi per nulla trascurabili in tempi, ormai cronici, di vacche sempre più magre, fino alo scheletrico, per il cinema. Anche se sono in un certo senso “gonfiati” dalle visioni scolastiche. Pubblichiamo una lunga intervista rilasciata dal Maestro ad Andrea Zambiano di Nuova bussola quotidiana, che ringraziamo.
Pupi
Avati, partiamo da una domanda inconsueta: perché vediamo Beatrice che mangia
un cuore insanguinato?
Volevo rispecchiare esattamente quello che è il sogno che fa Dante e che descrive
con dovizia di dettagli nella Vita Nova, non mi sono inventato nulla.
Che cosa
racconta?
È il 1° maggio 1274, a nove anni incontra Beatrice, se ne innamora, la segue
per nove anni fino a quando lei si gira e lo saluta. Quindi inizia un momento
di gioia così totale, così assoluta che corre a casa, si mette a letto, si
addormenta e fa questo sogno/incubo.
Il
cuore?
Lei, nuda tra le braccia di Amore gli mangia il cuore, lo descrive proprio
così. È il passaggio più significativo della sua vita: questa donna lo ha
introitato, lo ha portato dentro di sé per cui deve scrivere questo momento e
deve descriverlo con la poesia.
Sembra
una scena horror e l’horror è un suo grande classico…
È vero, è un’immagine che mi ricorda qualche cosa che va al di là dei cliché,
delle visioni poetiche, rassicuranti. Ci sono immagini e momenti di questo
tipo, effettivamente. Ad esempio, quando Boccaccio va a cercare suo padre tra
gli appestati…
O la
bambola che dona alla figlia, che lei poi seppellisce come fosse un bambino
morto…
C’è una parte del racconto, non voglio dire orrorifica, ma sicuramente gotica
che è funzionale a raccontare quell’epoca medievale.
Come le
scene di realismo quasi verista, crude, sanguigne e “temerarie”. Nessuno ha mai
immaginato Dante che si china per defecare in un prato prima della battaglia o
che fa l’amore pensando a Beatrice…
Bravo. Ho cercato di restituire Dante in una sua quotidianità, anzitutto
avvicinandolo a noi, facendolo scendere dal piedistallo in cui l’abbiamo
collocato e allontanato ho cercato di agganciarmi a quel Dante ragazzo, ma è lo
stesso tentativo che fa Boccaccio (Sergio Castellitto ndr.) quando finalmente
riesce a incontrare la figlia e le dice: «Io, suo padre lo vedo sempre
ragazzo».
Nel film
questo realismo si armonizza con una tensione spirituale attraverso il mezzo
della poesia.
Ma io ho voluto togliere la lettura edulcorata che gli abbiamo dato, Dante è
stata una persona che ha sofferto per tutta la vita, ma questa sofferenza è
stata sublimata dalla poesia, che è stata la sua forza.
Effettivamente,
ci risulta difficile pensare a un Dante sofferto e tormentato, l’aura di cui è
cinto attenua il dramma della sua vita: esiliato e con una taglia sulla sua
testa fino alla morte…
Vedi, il dolore produce creatività, nei tanti film che ho fatto mi sono reso
conto che l’espressione più pura del talento si tira fuori nel dolore. Anche
nelle scuole dove insegno vedo che i ragazzi più talentuosi sono quelli che
hanno sofferto: la sofferenza produce una conoscenza della vita attraverso la
vulnerabilità, che ti mette in contatto con le cose, con la vita, con gli
altri, ma in un contatto molto più profondo.
Il film
è un film su Dante, ma non è né una biografia né una “scimmiottatura” della
Divina Commedia…
È un rischio dal quale mi sono tenuto lontano. La Commedia, che poi
attraverso Boccaccio diventa divina non può essere visualizzata, è un
qualche cosa di ineffabile, di totalmente risolto, provare ad aggiungere figura
a figura equivarrebbe a ridurla.
Ad
esempio, il racconto di Paolo e Francesca arriva agli orecchi di Dante per
quello che doveva essere all’epoca: un sanguinoso fatto di cronaca.
È il Tommaseo che ci racconta di come Dante viene a sapere di Paolo e Francesca
prima della Battaglia di Campaldino, dal fratello di lei, che raccontava ai
soldati questa storia atroce della sua famiglia.
E si
poteva cadere nella tentazione di visualizzarla?
Esatto. Anche quando viene a conoscenza della tragedia del Conte Ugolino
capiamo quali sono state le fonti più inattese che hanno prodotto in lui
quell’elenco di personaggi che diventeranno quel “libro solo di morti” di cui
parla la mugnaia nel Casentino che lo sta ospitando.
Come
crede che verrà recepito dalle scuole?
Benissimo. Anche dantisti che non hanno partecipato alla consulenza del film
stanno apprezzando la pellicola, non so quante siano già le università che ci
stanno chiedendo di proiettarlo.
Secondo
lei perché?
Perché ci avvicina questa capacità di renderlo umano, seducente. Dante diventa
uno di noi. Io mi immagino un professore di terza liceo che dice: «Meno male,
forse adesso i ragazzi staranno più attenti».
Decidere
di raccontare Dante è un’impresa unica, che nessuno ha mai tentato. È stato
anche coraggioso?
Togli pure l’“anche”. Ho impiegato 20 anni per trovare un committente. È stato
coraggioso perché il personaggio ci sovrasta, ma io mi sono servito di una
password particolare.
Quale?
Boccaccio, senza Boccaccio non avrei mai avuto l’ardire di affrontare un
personaggio di questa levatura del quale non si sa tantissimo. La presenza di
Boccaccio, il suo itinerario alla ricerca della figlia per risarcirla
dell’esilio da parte di Firenze, riesce a sostenere questa grandezza. Boccaccio
primo biografo di Dante è il primo a umanizzarlo, è un mediatore tra noi uomini
del terzo millennio e lui.
Grande
successo al botteghino, il film è stato primo nella prima settimana di uscita,
ma, di contro una freddezza di critica.
Il mondo della critica ha sempre i problemi di inadeguatezza, questo è un film
per il quale bisogna avere un minimo di preparazione, non si può giudicarlo
soltanto cinematograficamente.
Non
capisco…
Che non basta giudicarlo da una trama o da un finale o da un’ambientazione, è
qualcosa di molto di più, è la summa di tutto il mio cinema, di
quello che è il mio sapere cinematografico accumulato in mezzo secolo di film.
Intende
dire che lo sente particolarmente suo?
Se dovessi dire qual è il film che mi rappresenta oggi dico questo, se mi
avessero fatto fare questo film 20 anni fa quando ho chiesto di farlo, l’avrei
concepito diversamente. Mi sono serviti 20 anni di studi.
Pensa
che la critica non sia pronta?
Non dico questo, ma sicuramente dovrebbe fare come ho fatto io: premettere un
senso di inadeguatezza di fronte al personaggio con cui abbiamo a che fare,
entriamo nella sacralità di un personaggio ineffabile.
A
proposito di sacro: l’immagine della locandina è il momento dell’incontro tra
Dante e Beatrice in cui lei gli dice: “Vi saluto”. Il sacro si tocca con mano…
Un momento sacro ed eterno, che resta sospeso. Boccaccio dice che in quello
sguardo c’è l’emozione del mondo, quello sguardo cambia la storia della cultura
del mondo, da lì nasce tutto quello che Dante fa e di cui, di conseguenza,
altri poeti e letterati gli sono debitori. È la prima grande storia d’amore del
mondo non classico, che condiziona tutto quello che è venuto dopo, ad esempio
Romeo e Giulietta.
Eppure,
era una storia d’amore interamente platonica…
Platonica e sublimata, nel mio romanzo (L’alta fantasia, Solferino) e poi nel
film, Beatrice è perfettamente consapevole del ruolo che ha nella vita di
questo ragazzo, lo sguardo tra loro è eterno, senza fine.
Dante,
in fondo, era un esiliato, è morto in disgrazia. Oggi c’è qualcuno a cui si può
accomunare questa sorte ingrata?
No, mi vengono in mente persone in altre società a noi attigue, come nel mondo
arabo o in Russia, che soffrono in galera, private della possibilità di
esprimersi, tuttavia, questi non hanno sublimato il loro dolore in poesia. La
cosa che li distingue da Dante è questo: Dante è un grande poeta.
Il film
è il viaggio di Boccaccio alla ricerca della figlia di Dante suor Beatrice per
risarcirla dell’esilio nel nome del padre. Che significato ha oggi questo
risarcimento?
È un risarcimento che ancora non si è compiuto. Se penso ai festeggiamenti per
il settecentesimo anniversario della morte (conclusi nel 2021) direi che sono
in tanti che dovrebbero risarcire Dante per avergli dato una patina troppo
edulcorata o troppo seriosa.
È
un mea culpa nazionale da fare?
Le celebrazioni che lo hanno riguardato sono state un’occasione per parlare di
sé a livello istituzionale. Le ho vissute con dissenso, Dante mi è sembrato
piuttosto un pretesto per autocelebrarsi.
E i suoi
attori che cosa dicono di Dante?
Hanno avuto il grande merito di prepararsi molto, di avvertire una
responsabilità che faceva tremare i polsi (Dante giovane è interpretato da
Alessandro Sperduti ndr.). Le racconto un episodio che riguarda la giovane che
ho scelto come Beatrice.
Carlotta
Gamba, prego…
Dopo il provino le ho detto: «Lo fai tu». Poi mi sono fatto accompagnare a casa
in macchina e, attraversando il Tevere, l’ho vista camminare sul ponte:
singhiozzava, con la mano si copriva la faccia. Ho pensato che avvertisse la
responsabilità, la paura.
E
Castellitto? È sempre in scena, ma non è lui il protagonista.
Castellitto-Boccaccio è l’autore di questa storia che sono io. Sergio ha capito
esattamente qual era il mio approccio e come io volessi testimoniare quanto un
poeta abbia amato un altro poeta come mai nella storia della letteratura. Quasi
tutto quello che dice in questo film è quello che penso io.
Anche la frase finale «conosceva i nomi di tutte le stelle»?
Sì. È mia.
A. Martino
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