VE LA DO IO LA GREEN ECONOMY: ZERO PRODUTTIVITA’, ASSISTENZA SOCIALE, DECLINO E DESERTIFICAZIONE IN OGNI SENSO.
So che agli occhi dei vari “esperti” e professori di “transizione ecologica” e dintorni, rischio di fare la parte del selvaggio con l’anello al naso (ma questo è ormai “piercing”), però ne avevo da tempo il sospetto che ora è una certezza: la green economy (come altre cose verdi) è un ulteriore modo per incaprettarci e condurci per mano nell’ hospice dei malati terminali a lunga degenza dell’Economia e della Storia.
La conferma me l’ha data il modo con cui il main stream descrive l’Afghanistan dopo un sostanziale letargo informativo rotto solo dagli annunci dei caduti italiani sul campo: l’ondata di profughi, cosa ne sarà delle donne afghane, una terra dove si coltiva solo oppio…classiche preoccupazioni da gente ormai scollegata dal mondo reale, geopoliticamente sordomuta, economicamente castrata.
Al’ establishment e alle elites cosiddette e presunte tali non interessa come fare l’Italia, grande, o più ricca o più produttiva, e guardarsi attorno in tale prospettiva. A questi procuratori e fiduciari del mondialismo interessano i “diritti” (quelli arcobaleno), la “sostenibilità”, realizzare una sempre maggiore presa dell’ Europa su economia e finanza, tenerci buoni e contenti con bonus e superbonus, ristori e ristori bis e tris assistendo e beneficiando imprese e famiglie (se il virus non ci fosse bisognerebbe inventarlo….). Parlare di assistenzialismo non ha ormai più senso; siamo già una società iperassistita, espressione di un ordine di cose che senza tutti questi “ammortizzatori” sarebbe stato travolto da almeno un anno. Il Venezuela o l’Argentina sono ormai qui, ce ne differenziamo solo per molto maggiori consumismo e carovita.
Sveglia, professoresse e professori! L’ Afghanistan è, Artico a parte, l’ultima frontiera dell’estrazione mineraria (che orrore, con tutte quelle ruspe a gasolio e quelle escavazioni così “non sostenibili”…). E poi, si sa, a che ci servirebbe più tutto quel pietrame se qua non dobbiamo, in pratica, produrre neanche più, letteralmente, un proverbiale tubo?
E’ più facile dire quale minerale non sia reperibile sotto il suolo afghano, invece degli innumerevoli che lo siano. Tanti di valore e utilità “classici” come oro o ferro, rame o zinco, ma in pratica tutti tra “i nuovi ricchi” dei minerali quali il più noto litio(per il NYT l’ Afghanistan ne sarebbe la futura “Arabia Saudita”) , e anche le cosiddette terre rare quali lantanio, cerio, neodimio. Le batterie delle vetture elettriche contengono fino a 15 kg di litio e cobalto. Sempre il litio è determinante nella nuova tecnologia militare.
Emblematici sono l’utilità del rame relativamente agli indirizzi “green”, e il suo enorme apprezzamento di valore proprio tra il 2020 e l’anno in corso: conduttore di elettricità ormai proverbialmente, è assolutamente cruciale ad esempio, anch’ esso nelle automobili elettriche.
Comunque, tutte le materie prime grano e caffè compresi sono in continuo apprezzamento, salvo le difficoltà delle quotazioni petrolifere, condizionate dalle docce fredde sui dati dei contagi da COVID-19. E gli approvvigionamenti di manufatti di qualunque genere, ormai quasi integralmente delocalizzati principalmente in Cina, scontano difficoltà apparentemente incomprensibili: in realtà le singole aziende, e il sistema Cina nel suo complesso stanno alzando la posta, semplicemente facendosi pagare di più tutto, vuoi per l’ oggettivo incremento delle materie prime vuoi per il semplice innalzamento unilaterale delle fatture imposte al deindustrializzato Occidente che rompe ancora le scatole con la richiesta di chiarezza sulle fonti della pandemia.
Ancora più dell’automobile elettrica, ibrida o non, credo sia emblematica la pala eolica assieme al pannello fotovoltaico: i due sacramenti energetici della nuova religione secolare del Green.
Ebbene: essi saranno i feticci di una società a zero nascite (arcobalenizzata oltre che senza prospettive produttive e di avanzamento sociale reali). Non ci sarà concesso neppure di fabbricarli dato che non ne abbiamo le materie prime necessarie, e avremo dismesso tutto o quasi tutto per le storie sulla “sostenibilità”. La Cina con le sue industrie “brutte sporche e cattive” ci rifornirà di tutto quanto necessario pale e pannelli suddetti compresi, e noi saremo divisi tra assistiti e ricchi da sempre che mandano i figli a studiare all’ estero. Vai con le app, e al bando l’ acciaio: iperconnessi ma impotenti.
Non potremo nemmeno rifugiarci nell’ agricoltura a causa del cambiamento climatico: l’espansione di aria rovente dall’ Africa che questa estate ci ha arrostiti non retrocederà certo grazie a un esercito di pale eoliche sui poveri colli dello Stivale e delle ancora fantastiche isole, a luglio e agosto non pioverà e gli acquedotti non si rimpingueranno perché le nostre strade saranno solcate da auto imbottite di minerali sempre più costosi e che non abbiamo (o le cui miniere come in Sardegna, hanno chiuso).
Complimenti a chi scrisse il soggetto e la sceneggiatura di Made in China napoletano (2017, regia di Simone Schettino): ha capito più o meno tutto, già quattro anni fa e tre prima del piano diabolico della strega Ursula.
A. Martino
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