ADDIO A SIR SEAN CONNERY, ICONA DELL’IMMAGINARIO DI UN OCCIDENTE NELLA SUA ETA’ D’ORO: LIBERO, VIRILE, PROSPERO E GAUDENTE
Per la gente della mia generazione non ostile al saper vivere, Sean Connery morto a Nassau capitale delle Bahamas (curiosamente set del primo film delle avventure di 007 che altre sei volte avrebbe interpretato) qualche giorno fa e nato a Edimburgo nel 1930, è una icona di stile e del come stare al mondo, e del come fare l’ uomo.
Che poi, come fa il miglior agente segreto di S.M. britannica e non solo, risolvere le cose con una pistola o spezzando il collo al prossimo non sia per nulla auspicabile e tanto meno cristiano, e vi si adombri il lato nero del Potere con “licenza di uccidere”; e che non tutte le donne (anzi, decisamente una netta minoranza) si riesca a portare a letto con la modica spesa di un Martini con vodka agitato e non mescolato e un’ oretta o meno di conversazione brillante; e tante altre pedanti osservazioni; nulla toglie ai sogni che Sean Connery a partire dal 1962 con Agente 007 : licenza di uccidere ha regalato agli uomini e donne di tre generazioni. Lasciò il testimone definitivamente in Mai dire mai (1983) affiancato da una stratosferica superfemmina che va sotto il nome di Kim Basinger e da un Klaus Maria Brandauer magnificamente malvagio.
Ma altri grandi interpreti come il forse troppo scanzonato Roger Moore e l’ algido, quasi androide, Daniel Craig hanno perpetuato la tradizione di una saga-miniera d’ oro di venticinque film compreso No time to die che non riesce a uscire per la pandemia, con tutto sommato minime concessioni al politicamente corretto e alla prosaica realtà come una allusione a possibili passate esperienze omo (vedi Skyfall del 2012), o una maggiore sofferenza sentimentale (e fisica). Fondamentalmente, sciocchezze.
L’agente 007 si presenta sempre con “ Il mio nome è Bond. James Bond”, affronta in corpo a corpo i peggiori delinquenti in magnifici completi con cravatte di seta su misura se non in smoking, conosce come nessuno alcolici e superalcolici rari e delle migliori annate, ironizza su tutto e tutti anche quando cercano di tagliarlo in due col laser a partire dai “gioielli di famiglia”; più che sedurre donne da urlo, le attira sul suo corpo come calamitandole; il tutto in una sarabanda di remake e riprese della produzione narrativa di Ian Fleming sempre ruotante, implicitamente e nell’ immaginario collettivo, attorno alle interpretazioni dello Scozzese fatto baronetto da Elisabetta II e convinto fautore dell’ indipendenza della terra del kilt e delle cornamuse.
Sean Connery-007 recitò (e sedusse forse non solo, a volte, sullo schermo)con le più belle attrici del momento (voglio solo ricordare l’ Ursula Andress del film di esordio), ma lavorò anche con i migliori “cattivi” (il nostro Adolfo Celi, o Christopher Lee e tanti altri).
Riguardare un episodio della saga di 007 significa tuffarsi, sempre, in una brutale ma scintillante e fascinosa favola per adulti, che lo interpreti Connery o Moore, Brosnan o Craig o i meno fortunati Lazenby o Niven.
E il baronetto resta appunto sempre l’archetipo, il canone originario rispetto al quale ogni successore può solo augurarsi di reggere il confronto e non sfigurare. Ma le interpretazioni di Sean Connery sono un monumento alla libertà e prosperità innegabili dell’aetas aurea del mondo occidentale tra gli anni Sessanta e il crepuscolo degli Ottanta, non ancora impastoiato dal politicamente corretto e rimbambito dal Pensiero Unico, e desideroso di trovare una intesa e una convivenza col blocco sovietico-comunista ( 007 – Dalla Russia con amore di Terence Young del 1963).
E infatti, il vero nemico è sempre stato la nefasta SPECTRE, specie nei film degli ultimi trenta anni da Brosnan in poi, la quale altro non è in fondo che la cupola mondialista a cui oggi dobbiamo con ogni probabilità, la pandemia.
Ma Sean Connery non fu solo 007: la sua carriera cinematografica va ben oltre, gli fece interpretare tanto per citare a caso Marnie di Alfred Hitchcock; La collina del disonore di Sidney Lumet; Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet; Il vento e il leone di John Milius; Quell’ultimo ponte di Richard Attenborough; Gli intoccabili di Brian De Palma (che gli valse finalmente il premio Oscar); L’uomo che volle farsi re di John Huston; Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud; fino a La leggenda degli uomini straordinari di Stephen Norrington che nel 2003 ne vede il congedo dalle scene.
Ma pensate a questa sua frase nei panni di 007 in 007: Missione Goldfinger (“Ci sono cose che assolutamente non si devono fare: per esempio bere Dom Perignon del ’53 a temperatura superiore a 4°C. Sarebbe peggio che ascoltare i Beatles senza tappi nelle orecchie.”). Come si fa a non vedere nella moderna mitologia di James Bond un autentico lascito all’umanità, aristocratico fino all’ assurdo e antimodernista fino alla derisione?
A.Martino
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