COME SEMPRE QUANDO SI PARLA DI PACE (MAI COME ORA) O CI SONO DIFFICOLTA’ SUL CAMPO, ARRIVA L’ATTENTATO UCRAINO IN UNA MOSCA COME INDIFESA.

Forse siamo stati troppo ottimisti. O meglio: è vero che con un (o meglio, una) dem ancora alla Casa Bianca, le prospettive della guerra in Ucraina sarebbero state solo ed esclusivamente, per tutta la galassia euroatlantista, il classico “a fianco dell’Ucraina fino alla vittoria”. Con le più fosche delle conseguenze possibili.

Ma lo è anche, che se dei segnali indicano certamente un lavorio diplomatico segreto russo-americano inesistente con Biden anzi formalmente esecrato (vi è ora un incaricato ufficiale), degli altri parrebbero indicare tuttora vivo e vegeto il partito della guerra operante su entrambe le sponde dell’ Oceano.

Anche a voler tralasciare le voci di un non so se tribunale permanente o commissione d’inchiesta della UE sull’ “aggressione russa” (di dubbi poteri ma sempre utile a qualche atto antirusso non da poco o almeno a intralciare il processo di pace), sembra che vi sia un certo ripensamento (i ripensamenti stanno a The Donald come la cravatta rossa o, almeno una volta, il ciuffo ramato) sulle forniture di armi.

E mi colpisce anche che questi dovrebbero essere coperti dalla fornitura di terre rare dall’ Ucraina agli USA: ipotesi barattiera molto congeniale alla psicologia diplomatica di Trump.

Da parte russa, le pur legittime richieste di cassare il divieto costituzionale ucraino di trattativa con la Russia e la richiesta di svolgere le rinviate elezioni, se da un lato evidenziano una grande civiltà giuridica moscovita, dall’altro ciò appare una scusa per prendere tempo al fine di migliorare le posizioni sul campo.

Non ci voleva poi, puntuale ogni volta che si parla di pace o la macchina militare ucraina arranca benché sostanzialmente ormai diretta dalla Nato, l’ennesimo atto terroristico dei servizi segreti ucraini in terra russa, anzi proprio nella capitale Mosca. I servizi segreti russi dimostrano una sostanziale impotenza e inefficienza, nonostante la loro roboante fama di “eredi del KGB”.

Vittima, oltre a un suo miliziano, il quarantaseienne Armen Sarkisyani, nome di battaglia “Gorlovsky” perché cresciuto a Horlivka (in russo Gorlovka, nel Donetsk). Era fondatore e comandante della struttura paramilitare Arbat, in gran parte formata da armeni o russo-armeni come lui. Nonostante i miei apprezzamenti poco lusinghieri per la sicurezza in Russia e persino nel cuore di Mosca, l’attentato è avvenuto nell’atrio del super sorvegliato complesso residenziale Alye Parusa, ovvero “vele scarlatte”. Stesso nome della festa pietroburghese sull’acqua ispirata a un racconto di letteratura russa per l’infanzia. La massiccia struttura, appunto in muratura rossa, si trova sulle rive della Moscova a Shchukino, a pochi chilometri ma a un’ora di traffico a nord-ovest del Cremlino. Sulla carta, un posto sicuro, fra telecamere, cancelli in abbondanza e sorveglianza permanente.

Ma come letteratura, cinema e soprattutto, anche questa maledetta guerra, insegnano, nulla o quasi può impedire agli ucraini (supportati dai servizi occidentali in primis britannici?) di colpire dove, come, chi e quando vogliono.

Pare che Gorlovsky fosse, tra l’altro, accusato dagli ucraini di essere al centro del traffico di metalli dall’ Azovstal di Mariupol verso il proconsole di Putin in Cecenia, Kadyrov.

A. Martino

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