MA QUALI EROI DI NASSIRIYA? QUEI MILITARI MORTI IN IRAQ ERANO SOLO DEI BUONI PADRI DI FAMIGLIA CADUTI A CAUSA DELLA SOLITA SUPERFICIALITÀ DEGLI ALTI COMANDI ITALIANI

Ho deciso di affrontare solo ora la ricorrenza della “Strage di Nassiriya” e, in modo più ampio, il concetto di eroismo, poiché sono consapevole che la mia riflessione susciterà certamente delle polemiche e non mi sembrava rispettoso aprire questo dibattito proprio in occasione del ventesimo anniversario dell’attentato.

Tuttavia, dopo quattro lustri, la verità è ancora umiliata dalla retorica e dalla propaganda, il che è intollerabile, così come lo è l’inflazione che c’è stata, negli ultimi anni, verso il titolo di eroe:

  • Un pompiere precipita con il proprio elicottero mentre va a spegnare un incendio a causa di un guasto al velivolo? Per la stampa e per la classe dirigente di questo Paese, quel Vigile del Fuoco è un eroe!
  • Un militare impegnato in una missione di pace, durante una pattuglia, salta su una mina con il proprio mezzo, senza sparare un colpo? È un eroe …
  • Un bagnino salva una persona che stava annegando? È un eroe!

Ora se questi sono i parametri, con i quali definire gli individui che compiono il loro dovere civile e morale, Salvo d’Acquisto non è un eroe, ma direttamente Dio in terra, così come Enrico Toti è un semidio e Giorgio Perlasca un “Paladino di Francia”.

Invece, se fossimo  seri,  dovremmo semplicemente riconoscere questi tre individui quali archetipi dell’eroe, cioè di quelle persone che, dinnanzi ad un pericolo mortale, pur essendo coscienti del fatto che con la loro azioni perderanno certamente la vita, antepongono la loro incolumità fisica al bene generale, cioè a quello verso la Patria e verso gli altri.  

Dunque come possiamo definire eroe un semplice pompiere in servizio che ha la sola sfortuna di subire un incidente mortale a causa di un guasto meccanico del proprio velivolo?

Certo, il Vigile del Fuoco in questione ha tutto il nostro rispetto, ma, ciò che gli è accaduto, non gli è successo perché, volontariamente, si è andato a mettere in una situazione suicida pur di compiere la propria missione … egli, più prosaicamente parlando, è stato semplicemente sfortunato e si è trovato, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Insomma, un povero Cristo, una vittima, ma nulla più.

Così come risultano essere dei poveri disgraziati il militare ed il bagnino che ho pocanzi citato.

Loro, infatti, nella nostra ipotetica storia, si sono fatti male o hanno rischiato grosso, solo per pura sfortuna e nulla più.

D’altronde essi avevano tutti i mezzi, materiali e culturali, per svolgere in maniera adeguata i propri compiti e se qualcosa, nel mentre, è andato storto è solo perché non se lo aspettavano e non certo perché  volevano togliersi la vita pur di raggiungere il nobile scopo.

Così, i 17 militati italiani che perirono il 12 novembre 2003 nell’attentato alla base “Maestrale”,  quella mattina non erano impegnati in nessuna missione pericolosa, né, a differenza dei loro antenati Carabinieri Reali, erano impegnati nella sanguinosa battaglia di Culqualber in Africa Orientale, ma erano comodamente acquartierati nei locali della “pessima” caserma italiana.

Dico pessima perché, l’infausta scelta del luogo dove posizionare la base in questione e le misure di sicurezze adottate in essa, furono senz’altro indice di tutta la superficialità e pressappochismo dell’alto comando italiano, ivi compresi i comandanti della “Maestrale” che a seguito dell’esplosione dell’avamposto sarebbero dovuti essere, prima, degradati e poi, processati per inettitudine, infatti la struttura in questione:

  • Non aveva un triplice recinzione ma solo un giro di sacchetti di sabbia;
  • Non era provvista di un ingresso a “zig zag”, ma aveva un unico ingresso lineare;
  • Non aveva torrette di avvistamento lungo il perimetro, né tantomeno mitragliatrici pesanti montate su di esse.

Se, al contrario, la base italiana si fosse dotata di queste modalità difensive, a perire, sarebbero stati non più di 3-4 individui, cioè solo i militari del corpo di guardia del primo cancello, poiché – una mitragliatrice “Browning M2”, ben piazzata dietro una fila di sacchetti di sabbia, avrebbe certamente buttato a terra il motore dell’autocisterna che a folle corsa si dirigeva contro la base, impedendone così la penetrazione nell’edificio, salvo poi – l’esplosione, con i suoi 400 kg di tritolo, investire letalmente i militi.

La base, però, e l’altra dozzina di uomini ivi presenti, oggi sarebbe ancora in mezzo a noi.

Ai tempi, poi, per partecipare alla missione “Antica Babilonia”, i militari italiani dovevano farsi raccomandare da qualcuno, tanta e tale era la domanda.

Pratica che, è bene ricordarlo, non era affatto così nutrita per puro spirito Patriottico, né tantomeno per filantropia, quanto per interessi economico/personali tipo quelli dell’acquisto di una prima casa, o di un’auto o di altre cose similari.

Quindi, i 19 militari italiani che quella mattina persero la vita erano li, principalmente per arricchirsi, o, come direbbero coloro i quali amano il politicamente corretto, per mantenere la famiglia.

Un gesto senz’altro nobile quest’ultimo, da persone responsabili, ma che non può minimamente elevare queste sfortunate vittime allo status di Eroe.

I 17 militari italiani morti sono senz’altro dei poveri disgraziati caduti per cause di servizio, ed è quindi giusto che alle famiglie delle vittime sia riconosciuta una qualche forma di compensazione o occhio di riguardo per il proseguo della propria esistenza, ma nulla più.

Dunque, chiedere da parte dei famigliari di questi caduti la medaglia al valor militare è ahimè fuori luogo, perché se la morte di quegli uomini ha senz’altro rappresentato, da un lato,  un Dramma Nazionale e dall’altro,  la fine del mondo per ogni singolo genitore toccato da questa vicenda, è altresì vero che se non torniamo immediatamente ad una giusta scala di valori questa società è condannata a fare una gran brutta fine.

Lorenzo Valloreja

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